venerdì 4 novembre 2016

Recensione - I Goblin

Karl-Heinz Witzko

I Goblin

(ma anche un po' i Koboldi)



“La porta li aveva pregati di accompagnarla alla sua solita osteria, che si chiamava Alla cerniera ben oliata e sembrava un grosso mattone. A destra e a sinistra dell'entrata erano appoggiate due porte di quercia rivestite di ferro. Erano i buttafuori della taverna e avevano il compito di vietare l'ingresso ai clienti indesiderati, ossia, sostanzialmente, 'i goblin di umore normale o addirittura allegro'. Brams trovava ragionevole quella regola. A suo parere, un goblin doveva essere completamente depresso per sentirsi a suo agio in quel rudere lugubre, dove si udivano sempre cigolii e scricchiolii sinistri e dove, secondo le malelingue, le porte si mostravano i pomelli di nascosto."

E per me basterebbe questo per dirvi di procurarvi il libro e destinagli un posticino d'onore nella vostra collezione. Ritengo I Goblin una chicca che ogni buon appassionato dovrebbe leggere.

Ma andiamo con ordine e cominciamo dalle cose buone e belle che rendono liete le nostre giornate.
Il libro è molto carino, dicevamo. Il tono è leggero e divertente, l'impostazione di personaggi e trama ricorda spesso quella del mitico Terry Pratchett.
A volte i dialoghi sono un po' difficili da seguire, forse a causa della mente contorta del buon Karl-Heinz, ma anche questo risulta decisamente funzionale alla costruzione dei protagonisti, i “goblin” (poi vi spiego le virgolette): sconclusionati ma geniali, ingenui ma determinati, ognuno sprofondato nel suo universo di ricordi, elucubrazioni inutili e deduzioni casuali.

In effetti uno dei punti di forza del romanzo è proprio questo. A differenza di altri racconti/saghe “monorazziali”, come ad esempio il ciclo degli Orchi di Stan Nicholls, qui i goblin sono realmente goblin (no, ma poi ne parliamo assieme alla faccenda delle virgolette), e non solo umani con nomi da goblin; non pensano come gli umani, non vivono come gli umani e nemmeno si ubriacano come gli umani!

Insomma era tanto che cercavo un libro che mi portasse nel mondo dei folletti della tradizione germanico/celtica, in mezzo ai funghi, ai muschi e al piccolo popolo, senza che si trattasse di un romanzo per ragazzi (che peraltro adoro), e, almeno per tutta la prima parte, I Goblin fa esattamente questo, e lo fa in maniera assolutamente spassosa.

Questo mi fa tanto rimpiangere l'epoca d'oro di Armenia... Speriamo che torni.
Poi però mi fa anche odiare l'editoria italiana, perché per proseguire nel ciclo dovrò imparare il tedesco (Nein! Nein! Nein!), dato che questo è l'unico volume tradotto – per fortuna auto conclusivo – e salvo smentite clamorose lo rimarrà (esattamente come successo per il ciclo di Nicholls il cui ultimo volume – Inferno – o te lo leggi in inglese o nisba. Molto rancore.).

Oh, e adesso veniamo alle note stonate.
Il romanzo I Goblin, si diceva, è davvero un bell'esempio di fantasy. Il romanzo I Goblin. Peccato che il titolo originale fosse Die Kobolde. Ko-bol-di. Koboldi cacchio, Ko-maledetti-boldi!
Ma perché!
Il pubblico italiano non avrebbe capito? I koboldi avrebbero fatto vendere meno? Questioni legate all'allineamento Marte-Giove?
Perché!


E pensare che per altri motivi – opposti! – la traduzione l'ho trovata davvero efficace. Mi è piaciuta molto la scelta di mantenere quasi inalterati gli impronunciabili nomi di goblin e comprimari (il terribile dio Spratzqueslacco, il buon re Raffnibaffo), così come la scelta di rendere le parole composite con formule tipo “lattedolce”, “tortapinta” o “legalunga”.
Ma se tutto il lavoro di traduzione è andato in direzione conservativa, perché l'unica cosa che è stata cambiata è – un dettagliuccio – la razza dei protagonisti?
A costo di ripetermi mi chiedo: perché!
Detto questo, leggete I Goblin, ne vale assolutamente la pena.

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