venerdì 23 dicembre 2016

Recensione - Rogue One

Rogue One

A Star Wars Story



E che storia! Una Story alla Robert McKee, con la S maiuscola, enorme.
Rogue One è perfetto, punto. Il regalo di natale ideale per riconciliarsi con Star Wars e superare la vergognosa delusione dell'episodio VII.
Già dopo la fine del primo tempo il giudizio era clamorosamente positivo: da lì alla fine è soltanto migliorato.

Il film è uno dei prodotti più solidi che abbia visto negli ultimi anni. Mi ha rapito, conquistato, e mentre scrivo, a un quarto d'ora dall'uscita dal cinema, avrei voglia di ricominciare a guardarlo daccapo.
La sceneggiatura è un orologio svizzero (perché è stata rivista e affinata fino a essere realmente priva di difetti), i personaggi sono caratterizzati alla perfezione tanto nell'outfit quanto nell'animo, le scenografie sono scure e claustrofobiche, intime e fumose, proprio come quelle degli anni '70 e '80. I punti di raccordo con la trilogia classica sono infiniti, e senza che mai ci sia un ammiccamento gratuito alla J.J. Abrams.

Rogue One è un film intelligente.
Nessun buonismo, nessuna idiozia comportamentale. I buoni, ampiamente imperfetti nella loro bontà, umani e reali, rischiano, e a volte muoiono. I cattivi non sono più soltanto manichini messi là ad assorbire colpi di blaster. Agiscono, colpiscono, uccidono, e lo fanno attivamente e indiscriminatamente.
Persino il droide di turno, K-2SO vince facile la classifica dei robot apparsi nella saga, con buona pace dei mitici C-3PO e R2-D2. Finalmente una macchina utile, sarcastica, smart, e con un ruolo assolutamente attivo nella trama.

Gareth Edwards ha resistito a moltissime tentazioni, e ha fatto bene.
Non c'è nessun Jedi: avrebbe oscurato gli altri personaggi, e assegnargli un ruolo da comprimario non sarebbe stato credibile. Però c'è Chirrut Imwe, che colma il vuoto ed è, col suo compare Baze Malbus, davvero un bel personaggio. Manco a dirlo, anche lui ha un compito fondamentale nella vicenda. Tutti ce l'hanno, e anche i comprimari ti fanno affezionare e tifare per loro.

Ha resistito a riempire di cammei la pellicola, come dicevamo, perché, semplicemente, Rogue One non ha bisogno di appoggiarsi a nulla. In un paio di casi in realtà ha ceduto alla tentazione, ma nel contesto di un filmone così glielo si concede volentieri. Così come ho trovato tollerabili anche alcune scelte (ma queste tutte di casa nostra) relative ai doppiaggi. Non perfette, ma nemmeno catastrofiche.

Ha resistito - grazie davvero Gareth! - alla storia d'amore, e persino al bacio finale.
Ha resistito - in casa Disney! - al lieto fine a tutti i costi.
Ha osato cancellare l'inviolabile sacralità della sequenza iniziale col testo inclinato che scompare in lontananza. Epporcamiseria, ha avuto ragione! Perché Rogue One non è un capitolo della saga, ma uno spin-off, che deve possedere la dignitosa indipendenza dello stand-alone.

E così facendo ha creato lo spin-off perfetto. Ha approfondito la conoscenza dell'universo di Star Wars, ha colmato lacune della storia lasciate aperte dai precedenti film, e ha raccordato le prime due trilogie.
Rogue One è come mezzo mondo si sarebbe atteso l'episodio VII, e se io fossi il Margravio di Disneylandia, ora prenderei tutti i contratti già in essere e ci farei coriandoli.
Poi scritturerei il buon Gareth Edwards e il suo pool di sceneggiatori per realizzare tutti i prossimi film della serie.

Eh sì, perché dopo Rogue One, un altro pastrocchio d'insensatezze scopiazzate non lo potrei proprio sopportare (capito J.J.?), e temo che sarà difficile mantenere l'asticella a questa altezza nei prossimi capitoli.
Un grande saggio una volta disse che c'è fare o non fare, non c'è provare.
A me invece basterebbe che a differenza di quanto ha fatto Abrams, i successori di Edwards almeno ci provino.




sabato 10 dicembre 2016

Recensione - Pacific Rim

Pacific Rim



Ora: si dice che i maschi siano organismi semplici, gretti, dominati da istinti basilari e prevedibili.
Si dice che la loro esistenza sia guidata dai bisogni primari dell'animale: mangiare, dormire, zaccagnare (cit.). Eh sì, soprattutto zaccagnare.
Assolutamente vero.

Ah, Frank. Tu sì che zaccagnavi alla grande...


Infatti, fatto salvo il comune desiderio - neanche tanto inespresso - di circondarsi di odalische libidinose ma nude, sono davvero poche le cose in grado di elevare il livello di attenzione di un maschio oltre la soglia della mera sopravvivenza (diciamocelo, passiamo buona parte della vita in modalità antigelo).

I robottoni lo fanno!
Compiono il miracolo! Coi robottoni il maschio mi si attiva, delega le funzioni vitali del respiro e del battito del cuore alla parte più remota del suo essere, e dedica tutta la sua energia allo schermo.
Scrive il grande Robert McKee, padre degli sceneggiatori hollywoodiani, che durante la proiezione di un film il quoziente intellettivo degli spettatori sale di 25 punti.
I maschi posti di fronte a enormi pupazzoni di metallo virtuale che brutalizzano mostri fluorescenti, come nel peggiore Celebrity Death Match, sfiorano in questo modo vette raggiunte di rado persino da Forrest Gump Tesla.

Volete rendere il mondo un posto migliore? Più robottoni per tutti!
Era dai tempi di Megaloman che si pazientava struggendoci in attesa di qualcosa del genere, e grazie al buon Guillermo del Toro, ora possiamo morire felici e liberare il mondo dalla nostra beata inutilità.

Ah, Megaloman. Tu sì che zaccagnavi alla grande...


Pacific Rim è un fumettone golosone per appetiti semplici semplici, pieno di colori, cliché carrettate di effetti speciali e nient'altro personaggi stereotipati simpatici e ben assemblati, come l'improbabile Hannibal Chau dalle scarpe d'oro (l'inossidabile Ron Perlman) - che sagoma! - o la coppia spassosissima dei due scienziati nemici/amici che sparando cazz con la loro conoscenza imbarazzante della genetica e dei teletubbies modelli matematici risultano fondamentali per la scontata banale prevedibile scialba vittoria finale.

Insomma, tirando le fila, due ore di tabula rasa cerebrale proprio di quelle che piacciono a me (tanto è vero che mi sono pure comprato il blurei. Eh? Eh?).
Poi dite che non vi consiglio bene.

venerdì 9 dicembre 2016

Recensione - Le Spoglie del Drago parte quarta

Margaret Weis & Tracy Hickman

Le Spoglie del Drago - Quarta Parte

Ciclo delle Dragonships - Libro 1


E insomma, siamo giunti alla fine.
Cioè, prima di giungere alla fine ci sono volute altre cento paginette per coronare il sogno di arrivare all'agognata p.532, però ce l'abbiamo fatta.
Detta così potrebbe far pensare che mi sia annoiato, e invece...
Sì, mi sono annoiato.
Un po', perlomeno. Intendiamoci, consiglierei Le Spoglie del Drago comunque, leggerò volentieri il seguito del ciclo delle Dragonships - composto da Il Segreto del Drago e L'Ira del Drago - e sono contento di aver acquistato questi tre libri in bundle.

Solo che l'enfasi berserker iniziale si è via via mutata in una quieta lettura da salotto vittoriano per diversi motivi; innanzitutto, come sottolineato nella prima parte della recensione, non puoi mettermi sotto al naso Vichingoni VS Super-orchi e poi costringermi ad aspettare il secondo (mi auguro) romanzo prima di vedere risolto il conflitto.
Secondo, la freschezza delle prime due parti si annacqua strada facendo a causa di interi capitoli che a mio dire potevano essere risolti molto più agilmente, vedi la terza parte del libro - La Nave Fantasma.
Infine, mi ha dato piuttosto fastidio, ma questo è un dato assolutamente soggettivo, l'introduzione degli pseudo romani a inquinare la purezza dell'ambientazione nordica, perché la commistione di popoli che si rifanno palesemente a quelli realmente esistiti nella storia mi fa un po troppo Mystara (e chi - tra i vecchi all'ascolto - vuole capire, capisca).
Questi i contro.

Per contro (ah ah, capito? Per contro ai contro... Le risa! Ora però basta ridere) va sottolineato come il romanzo sia strutturalmente solido, i personaggi - primo tra tutti Skylan, il babbeo protagonista - siano ben costruiti, vivi e credibili fino a farti venir voglia di andar lì a Vichingonia a prenderlo a calci personalmente per quanto è stolido, quello lì. L'intreccio è coinvolgente e così i climax, e poi ci sono delle belle idee un po' ovunque.

Insomma, non si può dir male della cara vecchia Weis & Hickman Inc. che sforna storie fantasy da prima che molti di noi abbrancassero il loro primo d20, né della loro arte scrittoria, né della loro sorprendente capacità di creare continuamente mondi nuovi e affascinanti. Diciamo che la pecca principale di questo primo volume del ciclo delle Dragonships sta un po' nella lunghezza complessiva e nel ritmo non sempre forsennato.
Però T.J. è rimasto soddisfatto, e questo, cari miei, non è mica roba da poco.
Oh.










mercoledì 30 novembre 2016

Recensione - Le Spoglie del Drago parte terza

Margaret Weis & Tracy Hickman

Le Spoglie del Drago – Terza Parte

Ciclo delle Dragonships libro 1



Bello.
No no, bello.
Però…
Sarà che questa terza parte - La Nave Fantasma - del romanzo fantasy-vichingheggiante del mitico duo Weis-Hickman l’ho letta un po’ a singhiozzo, sarà che nel frattempo (per imprescindibili necessità sociali...) ho dovuto concedere parte della mia regale persona al mondo vero, tangibile e triste frequentato da voi umani, ma forse – dico forse – il ritmo complessivo del libro è un tantinello calato, come quando osservi un germoglio di sequoia per vedere quanto ci metterà a diventare più alto di te.


La verve di questa terza parte del romanzo è più o meno quella di un'entaconsulta.


Oh, magari sbaglio, ma nonostante il climax da terzo atto nel boschetto dei druidi, onestamente mi sono annoicchiato.
E non siamo ancora alla Nave Fantasma vera e propria.
In buona sostanza in questo centinaio di pagine Skylan accentua il suo essere idiota (lo vorrei vedere giustamente punito, ma ho il terrore che alla fine verrà salvato dalla pietà degli autori), qualcuno muore ma non muore, viene introdotto un nuovo personaggio che sembra ma non è, e si vaga lungamente avvolti dalla nebbia. Altro? Ah, sì! Conigli. Conigli come se piovesse.
Eh? Ansiosi di arrivare a questo punto, eh? Eh?

Come to the druids' side. We have bunnies!

Conclusione: il giudizio complessivo su Le Spoglie del Drago rimane buono, d'altronde questi due signori scrivono bene e non lo scopro certo io, e di sicuro questa parte della vicenda sarà funzionale a spettacolari coup de théâtre nell'atto conclusivo, tuttavia…
Insomma, io una cinquantina di paginette le avrei risparmiate e avrei aggiunto un po' di epos per tenere alta l'attenzione, ma siccome parliamo di druidi, fate, draghi e vichinghi, diciamo che è tutto perdonato.

Per ora.

domenica 27 novembre 2016

Recensione - Mad Max Fury Road

Mad Max Fury Road

(Il Signore delle Saldature)




Turbovecchiette d'assalto – che riescono a essere credibili! –, Charlize Theron come al solito straordinaria, deliri visuali in ogni angolino dello schermo e profluvio di idee.
Ogni macchina, ogni accessorio, ovunque ammiccano piccole gemme d'inventiva.

Monster tracks spaventosi, scocche di maggiolini montate dappertutto, numeri da Cirque du Soleil tra camion in corsa solo per sentirsi gridare: “Ammirami, ammirami!”
Ua! Che storia questo Fury Road! Due ore che schizzano via veloci e potenti come una blindocisterna da 2000cv.

Qualche giorno fa avevo letto la recensione a fumetti di Leo Ortolani (Il buio in sala) che sottolineava come e quanto i giovinastri rampanti di Hollywood avessero da imparare dall'ultrasettantenne George Miller sugli action movie. E aveva ragione!
Il film è leggero, certo, ma coerente e solido, senza buchi di trama e fila dritto verso i titoli di coda senza bisogno di scene post-credits per soddisfare i nerd affamati di fronte allo schermo.
Perché quando Fury Road è finito è finito, e lascia soddisfatti come sei etti di carbonara e un litro di birra rossa.


Cromarsi la faccia e lanciarsi sui nemici per entrare nel Valhalla.
Cos'altro si può chiedere alla vita?


Il lavoro che gli ha valso 6 oscar si vede tutto, e non solo nell'ambito delle scenografie, del trucco e degli effetti speciali.
Il vocabolario degli abitanti del futuro apocalittico descritto (o ri-descritto) in Fury Road, ad esempio, è ben costruito e congruente con un'ipotetica società frutto della deriva incontrollata della nostra “cultura” di massa. Termini come “blindocisterna”, “latte di madre”, “cannipazzo”, koala, “vampari”, “acquacola”, Valhalla, e riflessioni come “i satelliti trasmettono show. Nel vecchio mondo tutti avevano il loro show” incicciscono l'ambientazione e le danno verosimiglianza.

I nomi dei personaggi (Immortan Joe, Il Mangiauomini, Rictus Erectus, the Doof Warrior, Organic Mechanic) rispecchiano le atmosfere da fumettone che ricordano quelle di un altro Miller, il caro Frank di Sin City.
Non ho visto la versione inglese ma sono certo che parte del merito vada anche al lavoro dei traduttori. Molto efficace.

Un'altra osservazione la voglio fare a proposito del sangue: pochissimo. Fury Road e la regia di Miller confermano ciò che sostengo da sempre. Fiumi di sangue e sbudellamenti sono inutili come una maschera da sub nel deserto del Gobi. Non rendono il film più crudo, né lo caratterizzano. Stancano e basta (ed è per questo che io odio il pulp. Troppo facile. Ricordo l'antica gag di Thomas Prostata – alias Bebo Storti – autore pulp amico della Gialappa's che riassumeva così il suo lavoro: “sanguemmerda”. Quando si ha una storia da raccontare e si è capaci di farlo alla grande, l'accento finisce su ben altro, e il genere non si esaurisce in due parole.

Dopodiché Fury Road mi avrebbe avuto lo stesso persino utilizzando espedienti più pecorecci.
Alla prima inquadratura del bardo armato di iperchitarra elettrica di fronte a un muro di casse sarei capitolato comunque. Semplicemente: troppa roba.


Sì, decisamente troppa, troppissima roba. Che figata!


E poi c'è il sorpresone: Megan Gale!
I più giovani manco sapranno chi è, ma per quelli più stagionati sarà stato automatico domandarsi: “ma non era morta?”. In effetti credo l'abbiano trovata a vagare per il deserto durante le riprese. Era già abbigliata alla perfezione per il film (dopo vent'anni di totale assenza dal pianeta ci sta...), e l'hanno inclusa nel progetto mossi da pietà, e forse perché in effetti il natron l'aveva conservata piuttosto bene.

A parte l'incipiente calvizie e il grave stato di disidratazione, tutto è finito bene per la povera Megan.


Mad Max... Ah sì, è vero, c'è anche Mad Max. Beh, fa niente. Il resto del film compensa ampiamente l'homo inutilus che grugnisce per la prima ora e surclassa Clint Eastwood nella gara delle espressioni. Clint almeno aveva quella col cappello.

venerdì 25 novembre 2016

Recensione - Van Helsing

Van Helsing

Dippiù èmmeglio!



E c'è il dottor Jekyll, e c'è Mister Hyde, e poi c'è il mostro di Frankenstein, e i lupi mannari e Dracula, e le mogli di Dracula (ah, le mogli di Dracula...). E poi c'è Igor, i duerghi, armi rotanti, balestre a ripetizione (benedicibili all'occorrenza), bombe a energia luminosa, i segreti del Vaticano, portali magici, Kate Beckinsale, e Hugh-spaccatutto-Jackman, mucche che volano e c'è anche l'ammòre!


 Tutta la delicatezza e la raffinata allusività di Van Helsing.
In alta definizione, per non perdere neanche un dettaglio.


Io m'immagino gli sceneggiatori che si presentano alla produzione con una roba del genere in mano.
Uno si aspetterebbe che nella vignetta successiva i malcapitati volino giù dal trecentesimo piano  del palazzo della Universal in fiamme e con la gola tagliata, e invece la risposta ai loro vaneggiamenti deve essere stata qualcosa del tipo: "Wow, figo!"
Ed è così che è nato Van Helsing.

E meno male, dico io.
Questo film ha lo spessore del laccio monomolecolare di Johnny Mnemonic e la credibilità di Renzi come leader della sinistra, però come può un maschio adulto dirsi virile e non amare questo concentrato di pura ignoranza tamarra?
Non può!
Un vero uomo, maturo, e in contatto col suo Io più profondo, non può far altro che inginocchiarsi di fronte allo scaffale, e, sollevando al cielo la sua copia del dvd, ringraziare gli dei del dono della cinefilia.



Ah! Che paura! Quegli occhi malvagi... Quei due occhi così...
Cavolo che due occhi. Sì, non riesco a distogliere lo sguardo da quei due...



Spiego meglio: ringraziare gli dei di avergli risparmiato il dono della cinefilia, cosicché lui, da servo timorato del divino ma anche orgoglioso sacco di testosterone e portabandiera dei Valori dell'odierna mascolinità, possa sfoggiare il suo apprezzamento per cotanta Pochezza sciorinata così, come se non ci fosse un domani, e andasse concentrata tutta tutta - ma proprio tutta - in quelle due orette.

 Certo, qualche pecca nel buon gusto è ravvisabile.
Non credo che all'epoca le case fossero così brutte, ad esempio.

Quindi grazie Universal, grazie sceneggiatori privi di dignità e di amor proprio, grazie Stephen Sommers, che hai sacrificato la tua carriera per dirigere Van Helsing. Voi tutti sarete sempre ricordati per aver glorificato il maschio nerd e aver soddisfatto il suo bisogno di Kate Beckinsale... di donne vampiro... di avventura.
Amen.

mercoledì 23 novembre 2016

Racconti Premiati - La Leggenda di Kayem

Lars Redding

La Leggenda di Kayem

Vincitore Fantaexpo 2013


"Un mercenario errabondo che non ha mai conosciuto altro che guerre, disperazione e acredine di cose bruciate. Una giovane donna guerriera, capo di indomiti ribelli. Un incontro casuale in un paese dilaniato dalle faide, all’improvviso tutto cambia. Dubbi, per la prima volta. Esiste davvero qualcosa per cui valga la pena combattere oltre il denaro?"

Questa l'invitante premessa del racconto di Lars Redding, Amico delle Tenebre di cui ospito volentieri il lavoro.
La leggenda di Kayem è un racconto disilluso e accattivante edito da Wizard & Blackholes e lo trovate qui.
Intanto ve ne offro una fetta.

  ***



Kayem posò il boccale di birra dopo averne tracannata metà senza pensare. Si pentì subito di uno slancio tanto incauto. Quella brodaglia faceva schifo, era calda, allungata, il colore e, a tratti, anche il sapore ricordavano l’urina di cavallo, ma era offerta. Questo cambiava un po’ le cose, benché chi fosse a offrirla gli piacesse anche meno.
Ne conosceva la fama, ma non il nome, tutti gli si rivolgevano chiamandolo Spit, alle volte Spit il Bello, o Spit il Rubacuori, o Spit il Galante, secondo le occasioni.
Mercenario e gentiluomo.
Un vero signore, anche nel loro schifoso lavoro. Bello non era davvero, eppure risultava infallibile nelle contrattazioni quasi come con le donne. A Kayem decisamente non piaceva.
A onor del vero, non esisteva persona che piacesse al prode Kayem, da quando aveva intrapreso la carriera di mercenario, all’età di cinque anni.
La locanda era una bettola infame ficcata nel retto di un lordo paesino di frontiera, una cacata di mosca su una mappa mai tracciata. Puzzolente di piedi, di latte rancido e frutta infracidita, frequentata a stento da qualche vecchiaccio scorreggione e rincretinito.
Kayem era stato sul punto di andarsene, quando Spit il Bello si era seduto al suo tavolo, senza esservi invitato. Normalmente, lo avrebbe cacciato via a pedate, ma quello si era presentato con due boccali pieni all’orlo. Ora lo studiava con quel suo abituale atteggiamento di sufficienza irridente, questo a Kayem non piaceva più di ogni altra cosa.
- Non hai risposto alla mia domanda.
Gli occhi di Kayem incontrarono quelli del fastidioso commensale. Già, la domanda.
Gli aveva a stento prestato attenzione.
- Non ho detto che l’avrei fatto. – Grugnì.
- Non stiamo lavorando, rilassati un po’.
- Chi ti dice che non sto lavorando?
Spit ridacchiò e si mise ad elencare sulla punta delle dita.
- Non sei il tipo adatto a questo paese, troppo appariscente e rumoroso. Non sei bravo quanto me, né a combattere né a contrattare, quindi è molto improbabile che tu abbia trovato un ingaggio ed io no. E, in generale, non ci sono incarichi interessanti da queste parti, altrimenti lo avrei saputo prima di te.
Kayem sentì il sangue ribollire e dovette lottare per allontanare la mano dalla spada.
- Potete sprofondare. – Disse con disprezzo. – Tu e questo fottuto paese.
Spit rise di nuovo e finì la birra, scuotendo la testa come un adulto rassegnato davanti a un marmocchio senza speranza.
- Potrei farti la stessa domanda. – Rilanciò allora Kayem, trattenendo a stento la rabbia. – Che ci fai tu in questa cloaca schifosa.
- L’ho fatta per primo e ho offerto… la risciacquatura dei piatti.
- Sono di passaggio.
Kayem si stancava presto del gioco, di qualsiasi gioco.
- Bravo. – Spit si alzò. – Perché voglio darti un consiglio, se non amico, da collega.
- Sarebbe?
- Finisci la tua birra e vattene il più lontano possibile, questo posto non fa per te. – Gli diede le spalle. – Per nessuno di noi.
Kayem lo osservò rivolgere un cenno ai compagni, che abbandonarono i boccali mezzi pieni, la birra non era piaciuta neanche a loro. Li seguì finché non svanirono fra la gente per strada.
Questo non è posto per te.
Niente di più vero.







lunedì 21 novembre 2016

Recensione - Il Buio in Sala

Leo Ortolani

Il Buio in Sala




Ho appena finito di leggere l'ennesimo capolavoro di Leo Ortolani e non posso non parlarne. Dato però che si tratterebbe della recensione di una raccolta di recensioni, ho deciso che lascerò la parola all'autore di Ratman. Come al solito basterà una pagina (anzi due) per conquistarvi e farvi correre in libreria. Ed eccola qua.






Alla definizione "potere di sintesi" non saprei cosa aggiungere se non questa recensione di Transformer 2. 😂
Se vi serve altro per trovare un posticino sullo scaffale a questa perla siete peggio di Gigioni.




domenica 20 novembre 2016

Recensione - Una Storia Vera



David Lynch

Una Storia Vera (“A Straight Story”)

scritta tra le righe



Ogni tanto mia moglie porta a casa qualche dvd dalla biblioteca in cui lavora con la speranza di poterci guardare qualcosa assieme nella quiete della nostra sala/cucina. Di solito si tratta si schifezze intellettualoidi indipendenti che le sue colleghe responsabili dei nuovi acquisti comprano per elevare il prestigio della minuscola biblioteca di paese in cui passano le giornate. Una biblioteca i cui utenti abituali sono bambini in età prescolare e anziani in età premorte.
Per cui di solito l'arrivo di questi film sul tavolino di casa si risolve in un:
C'è un drago?”
No.”
Un mago? Un'astronave? Kung Fu?”
No.”
Allora non mi interessa.”
A volte però capita che in mezzo al mucchio degli acquisti che transitano da casa finisca una copertina interessante, o un titolo che mi incuriosisce. Così è stato per Una Storia Vera.
Ammetto che la mia monomania nerd per il fantastico mi limita molto sul piano della Cultura Cinematografica (d'altronde mica sono qua a millantare di essere Figo de Fighis), e spesso ignoro l'esistenza di lavori straordinari di grandi registi.
Avessero messo un'ascia bipenne nel logo della casa produttrice magari me ne sarei accorto prima.
Per fortuna me ne sono accorto ora, grazie a mia moglie. Diciassette anni di ritardo che non hanno scalfito di una virgola la poesia e l'attualità del film di Lynch.
Se dovessi descriverlo con una frase lo definirei come “la bellezza del non detto”.
E pensare che ho sempre odiato chi mi diceva di leggere tra le righe. Tra le righe non c'è scritto nulla! Niente, è tutto bianco! Se vuoi comunicare qualcosa dimmelo!
Ecco. Da questo punto di vista il titolo del film sarebbe potuto essere “Come smentire i preconcetti di un babaleo con l'Arte” (si noti la “A” maiuscola, prego).
Il film è un susseguirsi di silenzi, panorami e dialoghi ridotti all'osso. Dalla prima all'ultima scena. C'è un sacco di spazio tra le righe, talmente tanta laconicità che sembra un aiku.
Le musiche – meravigliose – di Angelo Badalamenti sono dosate col contagocce, e spesso si limitano a sei secondi di tappeto d'archi appena percettibile, eppure svolgono il loro compito alla perfezione. Quando il tema principale si dilunga i dialoghi scompaiono, lasciando il posto a straordinarie carrellate sui campi sconfinati degli Stati Uniti centrali e sui colori incredibili dei loro autunni.
Il non detto esiste e come, e la fa davvero da padrone: non lasciando allo spettatore il compito di avanzare le interpretazioni pretenziose tipiche dell'arte contemporanea (un water in mezzo a una stanza è un water in mezzo a una stanza e basta!), ma permettendogli di intuire quello che i personaggi non esprimono a voce. Niente dialoghi melensi, niente ovvietà. Quattro parole, e sappiamo tutto sulla persona che Lynch vuole farci conoscere.
Una ragazza al quinto mese di gravidanza che fa l'autostop in mezzo al nulla ci parla di incomunicabilità (la stessa che affligge il vecchio protagonista), della chiusura mentale della sua famiglia, e della sua stessa ignoranza riguardo alle cautele che dovrebbe tenere qualsiasi sua coetanea, ma che lì, a centinaia di miglia dalla città, nessuno le aveva probabilmente mai spiegato.
Ognuno dei personaggi ritratti da Lynch nell'improbabile viaggio di un vecchio contadino in sella a un tosaerba è una piccola finestra sull'America rurale, quella che si sente (ed è) lontana da tutto; dal benessere, dall'informazione, dalla cultura e dallo Stato prima di ogni cosa. Guardando il film si ha l'impressione che i luoghi attraversati dal vecchio Alvin siano sempre stati così come li vediamo, e che – per sfortuna di chi ci vive – lo resteranno per sempre. Le campagne del 1999 avrebbero potuto benissimo essere quelle di trent'anni prima. Guardando Una Storia Vera oggi, non è difficile comprendere il disagio di lunga data di chi ha spedito Trump alla Casa Bianca.
Lynch però ci fa anche ridere (probabilmente lo farà anche Trump. O perlomeno le gaffe sono la miglior cosa che ci possiamo aspettare dalla sua presidenza). Nella primissima parte del film mostra esattamente come dovrebbe essere la vita secondo me. La scena è del tipo:
Ah, stai morendo? Ok, allora al cinema ci vado da solo. Ciao.”


Ho anche scoperto che in alcune pose David Lynch
assomiglia in maniera inquietante a mio suocero.
 
E poi, una mezz'oretta dopo c'è un momento davvero epico. Non avrei mai pensato che un vecchio sciancato, un fucile e un tosaerba potessero essere gli ingredienti per la scena comica perfetta, e invece sì! Ma col cavolo che ve la spiego...
Insomma, Una Storia Vera mi è piaciuto tanto, mi ha fatto pensare (non è facile!) e mi ha anche commosso.
Se consideriamo che in tutto il film non c'è nemmeno un drago, è un risultato davvero notevole.

martedì 15 novembre 2016

Racconti Premiati - La Maledizione della Prima Ifa

Simone Zambruno

La Maledizione della Prima Ifa

Terzo Classificato Premio Barricata Rossa 2012
Secondo Classificato Storie Fantastiche 2015



In un tempo che gli uomini hanno ormai dimenticato, una terribile battaglia si svolse qui, tra queste rocce butterate dal tempo e dagli acidi, agli ancestrali limiti del mio sconfinato impero.
Una battaglia magica, uno scontro epico tra i più possenti incantatori del mondo conosciuto, uno scempio terminato senza vincitori, né vinti.
Nessuno seppe mai chi provocò quella guerra, perché nessuno sopravvisse per raccontare. Quel giorno solo la Morte lasciò il campo di battaglia da vincitrice, con infiniti trofei al proprio seguito, corvi come araldi e avvoltoi portabandiera.
Su questo campo brullo la pioggia di magia sparse ovunque i grani della sua mortifera semina, e presto ne germogliarono infiniti i corpi devastati degli avversari.
Ogni anima colpita da quelle tremende emanazioni trovò la morte, o venne dannata per il poco tempo che quel tragico scontro le avrebbe ancora, sadicamente concesso.
Eppure...
Eppure per me – me soltanto, tra tutti coloro che calpestarono questi sassi maledetti – quello fu il giorno del Risveglio.
Sapevo di essere nato per espandere il mio dominio come mai nessuno prima, un pollice alla volta, in una lenta e inarrestabile avanzata verso terre che nessun essere vivente aveva ancora colonizzato. In un certo senso, tornai da vincitore.
In quel giorno lontano ho varcato il confine tra due mondi.
Colpito da un'incantata favilla, su quella squallida frontiera senza vita la mia coscienza eruppe, e giunsi alla consapevolezza così a lungo negata ai simbiotici membri della mia razza, per millenni calpestati dagli altri indegni simulacri della vita intelligente, gli umani.
Per ironia della sorte, fu proprio la forza distruttiva dei loro incantamenti, la casuale scintilla che fece avvampare in me la fiamma della ragione, permettendomi di penetrare i più oscuri misteri del mondo.
D'improvviso, seppi.
Tutto.
Il prezzo per la mia nuova, sconfinata Scienza, è stato pagato col più alto tributo di sangue che si ricordi, ma si è trattato in fondo di un giusto prezzo.
Perché ora io conosco.
Nessun segreto sarà più tale per la mia mente superiore: il senso della Vita e della Morte, tutti gli eventi passati e futuri, li vedo scorrere chiari di fronte a me come limpida acqua sorgiva; conosco il nome di tutte le cose, e so di cose che ancora un nome non hanno.
Il mio tempo è giunto.
Per l'eternità mi ergerò onnisciente al di sopra di ogni creatura, e tutti mi venereranno come loro Signore.
Dal mio rifugio tra queste pietre grigie sarò il lume della ragione che splende su di un mondo fosco precipitato nella tenebra della barbarie.
Sarò re.
Sarò Dio.
Il mio sarà un dominio di fermezza e inflessibilità, consapevolezza e ferrea determinazione.
Dominerò roccia, acqua e sale, e il sole stesso brillerà della mia luce riflessa.
Nessuno oserà mai porre in discussione la mia assoluta, incommensurabile superiorità, e io, in cambio, gratificherò il mondo della mia sconfinata saggezza.
Sarò guida e padre, comandante e maestro; sarò l'archetipica immagine della perfezione, e innumerevoli generazioni agogneranno somigliarmi.
Ineguagliabile e inavvicinabile.
Immutato e immutabile, perché perfetto.
Dalla distruzione sorto per condurre le razze verso un futuro che ne dimentichi il bieco significante e ne rinneghi il significato, in un certo senso, mio unico e tremendo genitore.
Creato non generato.
Provengo dalla magia, essenza e fondamento stesso del mondo, e la magia ora domino con un semplice, fugace pensiero.
Mai più i tempi vedranno il sorgere di un'altra alba guerriera, perché in me sta la forza dell'equilibrio e dell'eterna stasi.
Sono l'imperituro garante della pace.
Sono il padre di tutti gli incantatori futuri e il figlio della mia immota perfezione.
Con parsimonia estrema elargirò il Dono, affinché nessuno mai ne immagini il vero potere.
Solo io, per l'eternità, sarò davvero magia.
L'eternità...
L'eternità mi attende, ignorante dei segreti che le nascondo, bramosa di mostrarli a futuri emuli che mai esisteranno.
Il mio nome è Qc'hwtz-gh, e nessuna voce sarà mai in grado di pronuncia...
***
Fu proprio in quel momento, quando il disco purpureo del sole morente spandeva sul mondo il suo vermiglio saluto, e molti già stavano in casa riuniti per la cena, che l'umanità vide svanire la propria unica speranza di partecipazione a un incredibile futuro per colpa di Bessy, una vecchia frisona di quasi mille libbre.
A Bessy importava davvero poco dei tempi a venire, della magia e dell'altrui immortalità, ma aveva sempre trovato interessanti i licheni di un certo tipo, con il loro tallo corposo e croccante e le ife filamentose e morbide, il retrogusto torbato, e quella vaga nota finale di onniscienza.
Così raschiò avidamente il grande Qc'hwtz-gh dalla roccia su cui era da eoni abbarbicato, e lo ruminò con gusto.
Poi lo rigurgitò e lo ruminò ancora.
E lo rigurgitò di nuovo prima della digestione finale.
Placidamente adagiata sul prato, Bessy non fece mai caso alle lontane, impercettibili invettive lanciatele dalla sua cena a ogni rigurgito.
Per altro, anche volendo, non avrebbe saputo come rivolgerlesi, non potendone pronunciare correttamente il nome, vittima anch'ella, dell'ancestrale maledizione.

Recensione - Firmino


Sam Savage

Firmino



Oggi non voglio parlare di un libro fantasy, ma di un libro fantastico.
Fantastico perché il protagonista è un topo – anzi un ratto – che legge, suona, balla e sogna. Fantastico perché è bellissimo.
La prima parola che mi viene in mente per descrivere Firmino è “jazz”; Firmino è un romanzo jazz.
È caldo e accogliente, fumoso, e sa di carta leggermente ammuffita. Ha queste caratteristiche perché Sam Savage riesce a far ascoltare le elucubrazioni del suo ratto, la musica che gli piace, i sapori che scopre, e le emozioni che prova con una sensibilità che le rende quasi tangibili.
È jazz perché fino alla fine rimane essenziale e intelligente.

E poi, porca miseria, come fa un appassionato di fantasy a non adorare un ratto che si pappa libri a tutto spiano e vive isolato in un mondo fatto solo di romanzi e fantasie, un essere sfigato il cui unico “amico” (che nella mia testa ha l'aspetto del grasso sassofonista dei Simpsons) è un aspirante autore di fantascienza derelitto e solo più di lui?

Ancora: ma l'avete mai visto Sam Savage? Ogni amante del fantasy dovrebbe averne uno sul comodino!


Come si può non adorare questo romanzo, quindi? Semplicemente, non si può.
Ho amato Firmino intensamente, come chiunque l'abbia conosciuto, e come, vi assicuro, farete anche voi.

Recensione - Il Cavaliere dei Sette Regni


G.R.R Martin

Il Cavaliere dei Sette Regni


Il libro è una mini-raccolta di tre racconti che hanno come protagonista un umile cavaliere errante e il suo scudiero, un bambino di dieci anni.
Contrariamente a quanto avviene nel ciclo delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, questo prequel (è ambientato novant’anni prima del Trono di Spade) è quasi totalmente privo di scurrilità e scene di sesso. Rimane un po’ di violenza e iperrealismo nei combattimenti – è pur sempre Martin! – ma il tono complessivo è molto più rilassato e spesso i personaggi, anche i cattivi, appaiono perfino ingenui. Le stesse avventure di Dunk e Egg inoltre non concorrono a salvare/distruggere l’ordine costituito dei Sette Regni: i nostri eroi (pure un po’ sfigatelli in realtà) hanno a che fare col marginale, il periferico, il minore, sia che si tratti della quest di turno, sia degli aspetti della vita simil-medievale di Westeros in cui si imbattono.
Credo sia proprio questo ciò che rende piacevole la triade dei racconti. Ricorda un po’ le prime partite in una nuova campagna di GdR1, quando ci si bea dei paesaggi agresti, si dipinge il proprio mulo come Varenne, e due monete d’argento hanno ancora il potere di generare lotte fratricide nel gruppo.
Libro consigliato per due motivi: primo, Martin è sempre meraviglioso da leggere, scivola via fluentemente persino se si è lettori-bradipo come il sottoscritto. Secondo, ogni buon monomaniaco del fantasy deve leggere i prequel e gli spin-off. E questo è anche ciò che il buon G.R.R. si auspica: distrae i lettori dal produrre ulteriori maledizioni mortali nei suoi confronti per non aver più portato avanti la serie.
Va bene, caro George, tutto molto bello, ma vedi di non morire prima di aver finito che altrimenti ti veniamo a riprendere.
Con amore.
1 Per i non avvezzi: Gdr=D&D; D&D= “adulti” + dadi +birra +n.Kg di manuali di gioco.