domenica 20 maggio 2018

Recensione - Il Mercante di Tylmon


Oggi voglio spendere due parole per questo racconto di Federica Prina, scoperto sull'internet mentre mi dedicavo alla ricerca di ebook fantasy gratuiti.
Di solito è una ricerca che conduce a poco, vuoi per i criteri di catalogazione degli store che taggano come fantasy qualsiasi zozzeria, vuoi per la pochezza di chi si lancia sul mercato globale della narrativa gettando - ce ne fosse bisogno - ulteriore cattiva luce sul MIO genere preferito. Ve possino...

Così, dopo lungo slidare del dito sul mio cellulare mi è capitata sott'occhio questa delicata copertina, poco fantasy forse, ma in qualche modo, proprio per questo, meno occhieggiante, più onesta dei tanti obbrobri in cui solitamente ci si imbatte.

Il Mercante di Tylmon è un lungo racconto senza suddivisioni interne, un po' come la prima stesura del romanzo di Jack Kerouac Sulla Strada, che pare sia stato scritto tutto d'un fiato e poi riaggiustato per le stampe. La vicenda è quella di Cheslav, un mercante, o meglio, un ex mercante, che ora vaga di villaggio in villaggio guadagnandosi da vivere come cacciatore.


Per quale motivo Cheslav abbia abbandonato la sua professione per una "carriera" completamente opposta e pericolosa, e quale sia la vera preda che insegue lo scopriremo un poco alla volta, tra foreste, taverne e riminiscenze del nostro eroe.

Il Mercante di Tylmon è risultato una lettura gradevole. Non è per niente poco nel mare magnum dell'inutilità digitale contro cui spesso mi scaglio. I punti a favore sono diversi: innanzitutto, pur trattandosi di autopubblicazione, si nota una certa attenzione per la forma. Il testo è praticamente esente da refusi e l'italiano è corretto anche se si intravede, ad esempio nella presenza delle D eufoniche e nel linguaggio troppo piano, la mancanza di pratica e di un editing professionale.
Il ritmo è piacevole: forse qua e là ci sarebbe bisogno di alleggerire le descrizioni, il colpo di scena è intuibile piuttosto precocemente, ma si tratta di sfumature per un testo che viene offerto gratuitamente e riesce bene laddove tantissimi altri falliscono miseramente tra roboanti proclami e caterve di "recensioni" a cinque stellette.


Federica Prina si presenta in punta di piedi sin dalla scelta della cover, con questo racconto di cui, per motivi personali di visione del fantasy, ho apprezzato l'approccio intimistico, il risicato numero di personaggi e la quasi costante ambientazione forestale. Il Mercante di Tylmon è un vero fantasy, senza fronzoli e pretese di originalità (parola terribile da associare a questo genere, io credo), e un piccolo e onesto fantasy, di questi tempi, è davvero una piacevole sorpresa.

Voglio concludere quindi con un incoraggiamento all'autrice a perseverare e migliorarsi con quelli che lei stessa definisce "esperimenti" perché, a mio modestissimo parere, la via imboccata è quella giusta.
E poi per citarla: concordo con lei sul fatto che un cassetto sia un luogo davvero triste in cui rinchiudere i sogni, soprattutto quando contiene qualcosa di bello.


Recensione - La signora dei Draghi


La Signora dei Draghi è il primo libro della serie Dragonvarld, firmata dalla vera signora dei draghi di questo mondo, Margareth Weis.
Ho acquistato il libro in "bundle" assieme alla serie delle Dragonship, ed ero curioso di scoprire come l'autrice riuscisse a declinare il suo amore per le mitiche creature in questa nuova trilogia.

La Signora dei Draghi è una sacerdotessa, capo di un ordine femminile di cultiste dedite alla protezione del proprio regno dagli attacchi dei grandi rettili. Melisande è la sua designata success... succeditr.. quella che prenderà il suo posto, l'attuale Somma Sacerdotessa e una delle protagoniste della vicenda.
Dietro agli attacchi dei draghi si scopre presto un complesso intreccio di interessi e tradimenti, perpetrati non solo dagli umani.


Il ruolo di attore principale in questa vicenda tocca a Draconas, un drago (ma va?) a cui è stato concesso il potere di assumere forma umana per fungere da collegamento - e spia - tra le due stirpi. E' a Draconas che spetta il compito di indagare sugli attacchi e scoprire cosa si cela dietro ad essi, ed è un compito che gli viene assegnato proprio dall'élite dei draghi: gli umani non devono sapere nulla della sua missione.

Draconas si rivolge così al sovrano del regno vicino, Edoardo, che lo accompagnerà - anche fisicamente - nella sua investigazione verso il tempio delle sacerdotesse dei draghi e i suoi oscuri segreti.


La Signora dei Draghi mi ha lasciato abbastanza perplesso, per diversi motivi.
Il primo è che non sono riuscito a definire il target di riferimento del romanzo. Lo stile è piuttosto didascalico, privo di volgarità e con pochissimi termini scurrili, il che farebbe pensare a un pubblico di giovanissimi.
Tuttavia, fin dalle prime pagine scopriamo l'amore omosessuale tra Melisande e la guerriera a capo delle guardie, Bellona. Niente di male, ma la Weis non lesina le descrizioni degli incontri intimi tra le due, per cui il romanzo, per così dire, fluttua tra passaggi quasi banali e altri iperrealistici, in stile Martin.

Il secondo punto riguarda alcune soluzioni narrative, a mio parere piuttosto deboli, alle quali però concedo il beneficio del dubbio, trattandosi del primo romanzo di una serie in cui le apparenti mancanze e leggerezze potrebbero trovare spiegazione, e - soprattutto - perché è il minimo che una brava, no, una grande maestra del fantasy merita.
Stando a questo primo libro però personaggi come i monaci pazzi, a tutti gli effetti ritratti come monaci cristiani, con tanto di saio e tonsura, in un mondo in cui di cristiano non c'è nulla, appaiono quantomeno una forzatura, la mancanza di approfondimento verso un culto che dovrebbe avere caratteristiche e radici desunte dalla storia di Dragonvarld, e non dalla nostra.
Ma, come dicevo, vedremo...


Ultima nota dolente, la traduzione. Credo di averlo già detto altrove, ma un libro fantasy ambientato nel mondo X, nell'universo Y, nel regno K, e presentato tramite traduzione a un pubblico italiano NON deve avere personaggi chiamati Pino, Franco e nemmeno, come in questo caso, Edoardo. Se no mi leggo La Briscola in Cinque di Malvaldi che è un bellissimo e divertentissimo romanzo ambientato in un bar toscano e non un fantasy. Soprattutto (ed è qui che, come diceva un grande saggio, i fatti mi cosano) se Edoardo nella versione originale e, guarda caso, anche nel secondo episodio della saga in versione italiana, si chiama Edward...

Concludendo, La Signora dei Draghi non è il romanzo fantasy migliore che abbia letto, nemmeno tra quelli della Weis (lo stesso ciclo delle Dragonships è infinitamente più solido e godibile), l'indeterminatezza dello stile e alcune forzature stilistiche lo penalizzano, così come alcune scelte della traduzione.

Però non posso nemmeno dire si sia trattato di una brutta esperienza. In una cosa, infatti, si percepisce la grande abilità scrittoria di Margareth Weis, la capacità di trasmettere un senso di sospensione nel momento in cui si richiude la quarta di copertina, la voglia di scoprire, a prescindere da quanto la lettura ci abbia avvinto, come prosegue la vicenda, cosa che nonostante tutto non mancherò di fare.
E chissà che il giudizio complessivo non cambi radicalmente alla fine del terzo capitolo... 


Recensione - Altered Carbon

Originale Netflix


by The Gardener87

Dopo lungo tempo (per causa mia), ecco una bella e corposa recensione dell'amico Giardiniere sulla serie targata Netflix Altered Carbon.

Altered Carbon...
Altered Carbon...
Difficile parlare di questa serie cyberpunk targata Netflix tratta dal romanzo Bay City di Richard K. Morgan del 2002 (che a essere sincero non ho letto, ma farò in modo da rimediare prima possibile).
Si tratta di una produzione di prima qualità, con attori capaci ed effetti speciali che non hanno nulla da invidiare al grande schermo.

Avendo letto qualche recensione non proprio lusinghiera, una delle quali descriveva la serie come "lentissima e pretenziosa", ero riluttante a iniziarla, ma la visione dei primi episodi mi ha conquistato.
L'etichetta di lenta e pretenziosa può forse derivare, a mio modesto parere, dalla poca familiarità col genere cyberpunk e le sue tematiche, cosa che potrebbe condurre, a priori, verso aspettative più orientate all'action-thriller, con molto buda-buda-buda e situazioni da pelle d'oca, mentre quello che ci si trova di fronte è piuttosto diverso.

La forza del genere cyberpunk non è data dai fighissimi arti cibernetici o dalle pistole di grosso calibro (e dalle lenti a specchio, come dimenticare le lenti a specchio...) e nemmeno dalle modelle seminude che fanno capolino qua e là, ma piuttosto dal senso di alienazione e dalla costante sospensione morale a cui sono costretti i protagonisti.
In questo Altered Carbon arriva perfettamente al cuore della questione.


La Trama.
Il protagonista Takeshi Kovac si risveglia a oltre duecento anni dall'inizio del suo periodo di stasi, catapultato in un nuovo corpo e in un mondo che non gli è familiare se non nella misura dei propri tragici timori, divenuti realtà.

Kovac è un pericoloso sicario, reso spaventosamente cinico dalla perdita di tutti gli affetti, dal completo fallimento degli ideali per cui ha combattuto e, cosa non trascurabile, dalla propria morte.
Eh sì, proprio così: in Altered Carbon la morte del corpo non coincide con la morte definitiva della coscienza e delle memorie. Queste sono conservate in apposite pile corticali che possono essere trasferite su diverse custodie, ovvero corpi umani, cloni del corpo originale, corpi di altri, corpi a noleggio, e tutto quello che il denaro può comprare.


Takeshi dunque viene liberato (riattivato? rianimato? resuscitato? cosa siamo se di noi non resta altro che un pugno di circuiti e una manciata di elettroni?) in una nuova custodia, e badate, non un ciccione sudato e ansimante, eh? proprio un tizio di due metri largo come un armadio con muscoli tirati a balestra per volontà di un ricchissimo Mat.
"Mat" non è un nome, ma la contrazione di Matusalemme, la ristrettissima cerchia di uomini abbastanza ricchi da poter comprare tutte le custodie che vogliono ed eseguire backup pluriquotidiani della propria pila, divenendo sostanzialmente immortali e capaci di accumulare ricchezza, influenza e perversioni, per secoli.


Perché il Mat Laurens Bancroft si prende il disturbo di fare scarcerare un pericoloso criminale e pagare per una custodia di prima scelta? Ovvio, per indagare sul proprio omicidio, cioè la distruzione della propria pila corticale e il tentativo fallito di compromettere il suo archivio di backup.

Inizia così la difficile indagine del protagonista, costretto a districarsi tra mille identità di facciata, insabbiamenti, abissi di perversione e disperazione. Nello svolgimento del suo incarico Takeshi sarà costretto a servirsi a fondo del proprio addestramento unico, della propria disciplina mentale unita a una massiccia dose di spietatezza e a una totale assenza di scrupoli.

Ora, se siete stati attenti, avrete notato che non ho mai definito Takeshi come l' "eroe": si tratta infatti di un uomo arrogante e spesso crudele, un manipolatore nato che si serve delle persone facendo leva sui loro desideri e sulle loro paure  per raggiungere i propri scopi (molto bastone e poca carota, a dire il vero).
Non è però del tutto privo di umanità: la sua vera debolezza si rivelerà l'incapacità di abbandonare i propri "strumenti" una volta diventati inutili, il legame con le persone di cui si è circondato per portare avanti l'indagine da cui dipende la sua libertà.


Il Contesto.
Kovac e gli altri personaggi sono il prodotto del tempo e della società in cui vivono, una realtà esplorata con lucidità sulla base dei propri presupposti, un futuro distopico ma tristemente credibile, dove vizi, manie e contrasti sociali vengono amplificati all'estremo.
Un aspetto, che personalmente ho molto gradito, che può non essere apprezzato da tutti i palati: parecchio tempo viene infatti speso nell'esplorazione di questo futuro oscuro, nell'approfondimento psicologico dei personaggi e, attraverso questo, dell'intera società di Bay City.
Può sembrare un po' pesante in effetti, ma il tono non è mai espressamente moralista, se non nella misura della nostra capacità di indignarci di fronte ad argomenti con contenuti etici.

Tirando le somme.
Insomma, ambientazione azzeccata, bei personaggi, un mistero avvincente: Altered Carbon sembra privo di difetti.
Nella prima metà.
A un certo punto della faccenda infatti la trama va un po' alla deriva, tirando prima in ballo un caso troppo incredibile per essere vero e troppo transitorio per avere senso, poi delle motivazioni che spostano molto la centralità della vicenda sul protagonista, suscitando - quantomeno in me - una sensazione simile a quella provata guardando Spectre (l'ultimo James Bond), in cui tutto e tutti girano intorno a Bond (amici di Bond, nemici di Bond, colleghi di Bond, parenti dimenticati di Bond, il gatto di Bond...).

Nonostante questa sbandata la soluzione dell'investigazione e il finale sono belli robusti, con la prospettiva di una personalissima missione impossibile per il protagonista (qui forse finalmente divenuto, e a buon diritto, eroe) che potrebbe impegnarlo per il resto dei propri giorni (bello cavalleresco).


La serie è conclusa ma il finale è possibilista e allusivo come piace a me; tuttavia, se ci risparmiassero una deludente seconda stagione di sola retrospettiva su Kovac e il suo passato rivoluzionario sarei molto più contento.
A parte qualche scelta narrativa che non mi ha convinto fino in fondo mi sento di consigliare questa serie a tutti gli amanti del genere cyberpunk, che potrebbero essere rimasti, come me, un po' delusi da Bladerunner 2049
Qui all'atmosfera non manca nulla, tra neon dall'aspetto vintage, ologrammi e degrado urbano Altered Carbon non mancherà di farvi sentire di nuovo sul filo del rasoio.



sabato 7 aprile 2018

Recensione - Eymerich Risorge


A distanza di 8 anni dalla pubblicazione di Rex Tremendae Maiestatis, con Eymerich Risorge tornano le avventure del mitico e terribile inquisitore aragonese Nicolas Eymerich, uno degli antieroi più spietati (e al tempo stesso più amati) della narrativa fantastica contemporanea.

Il precedente capitolo della saga è ambientato nel 1372, e Valerio Evangelisti ci rende noto che Eymerich "morirà" solo nel 1399 (virgolette d'obbligo per il nostro protagonista, il cui destino è sempre legato a doppio filo ad avvenimenti di diverse linee temporali).
Tra questi due momenti intercorrono ben 27 anni, ed è quindi con estrema gioia che finalmente si ricomincia, anno 1374, con la speranza che la resurrezione di Eymerich sia foriera di numerosi altri romanzi. La cadenza biennale nell'ambientazione è infatti abbastanza regolare nei libri precedenti, e inoltre c'è il fatto che per assicurarmi di questa continuità ho rischiato di incorrere nel reato di stalking.



In occasione dell'ultimo Nightmare Film Festival di Ravenna, rassegna a cui Valerio Evangelisti spesso partecipa, ho avuto modo di minacciarlo bonariamente se non avesse riempito questo iato temporale con altri mille - millecinquecento romanzi del ciclo di Eymerich (e ovviamente mi sono anche fatto autografare una copia di Eymerich Risorge!).
Il buon Valerio ha fortunatamente deciso di non perseguirmi, e mi ha anche rivelato che è già al lavoro sul romanzo successivo! Lunga vita a Eymerich! Lunghissima vita a Valerio Evangelisti!

Dunque... Come traspare velatamente da questa premessa, non sono un revisore imparziale degli scritti di Evangelisti. Sono un fan, una specie di groupie con la barba.
Questo però mi rende anche esigente: la saga di Eymerich è infatti una delle poche che, a mio modo di vedere, non ha avuto cali particolari negli ormai undici volumi pubblicati. Ergo, le aspettative per Eymerich Risorge erano alte.


Il primo impatto con la storia le soddisfa tutte. Ritroviamo Eymerich, lo stesso cipiglio, la ritrosia al contatto fisico, il disgusto per gli insetti, la sporcizia e l'umanità più gretta (e buona parte della restante), la logica stringente. Inoltre, in men che non si dica l'inquisitore è di nuovo circondato da tutti i vecchi compagni di avventure, da mastro Gombau al fido padre Corona, la cosa più simile a un amico che il domenicano di Catalogna abbia mai avuto. Ritroviamo anche Marcus Frullifer, lo scienziato del futuro padre della teoria degli psitroni.

Insomma, in poche pagine lo stile fluido di Evangelisti ci riporta dritti all'inizio, a "Nicolas Eymerich, inquisitore", senza che mai traspaia la sensazione di già visto o di un occhieggiare ai propri lettori del tipo: eh, visto chi c'è? Visto chi è tornato? O forse un po' sì, ma chissenefrega, era esattamente quello che volevo.
E come disse una volta un grande saggio: squadra che vince non si cambia. Oh.


Tornado alla trama, questa volta Eymerich è sulle tracce dell'enigmatico Francesc Roma, un ecclesiastico tacciato di pratiche stregonesche e addirittura di bilocazione, e il compito di rintracciarlo gli viene assegnato addirittura da papa Gregorio XI.
Le peripezie del domenicano si svolgono sulle Alpi al confine tra Italia e Francia, tra antiche abbazie, oscure caverne, sepolcri di pietra, Ospitalieri, Valdesi e strani fenomeni celesti.
La caccia all'eretico Francesc Roma sarà condotta da Eymerich con la consueta spietatezza, ma anche con una - questa volta inconsueta - vena tollerante, dovuta forse all'età avanzata dell'inflessibile sacerdote.

Il romanzo, godibile e scorrevole, è tuttavia è privo di un climax finale degno dei capitoli precedenti della serie, rispetto ai quali Eymerich Risorge è forse più rilassato e meno potente. Alcune delle sottotrame paiono lasciate in sospeso, senza che il romanzo abbia un finale aperto a giustificarne l'abbandono.

Nonostante ciò sarò morto, prima di appioppare un giudizio negativo alle storie del terribile inquisitore di Gerona (temo abbia ancora il potere di raggiungermi e sottopormi a tratti di corda o alla tortura dell'acqua), e confermo che anche con questa leggera inconsistenza nel finale, Eymerich Risorge ci voleva, così come saranno più che ben accolti i futuri capitoli che Evangelisti vorrà regalarci. 


martedì 27 marzo 2018

Douglas Adams e la politica italiana


Douglas Adams, il geniale creatore della 'Trilogia in cinque parti' della Guida Galattica per Autostoppisti, ci ha lasciato all'inizio del millennio, eppure il suo potere di precognizione continua a stupire.
In questi giorni di caos, tra alleanze immaginarie, smentite, fratture, incertezze e cambi di direzione, l'Italia politica dimostra quanto siano profonde, riflettendole, le nostre divisioni ideologiche e culturali, e quanto poco ne capiamo davvero su chi e come vorremo ci guidasse.

E Douglas Adams lo sapeva, lo sapeva già nel 1984 quando scrisse il quarto capitolo della serie della Guida, 'Addio, e grazie per tutto il pesce', che ho appena finito di leggere, e in cui ho scoperto questa piccola analisi-barra-profezia che sembra scritta oggi per il nostro disgraziatissimo Paese (anche se ho il forte sospetto che possa adattarsi a tante altre realtà...) e che voglio fissare nel mio piccolo angolo di web.

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- Proviene da una antichissima democrazia, sai... - disse Ford.
- Intendi dire che proviene da un mondo di lucertole?
- No - disse Ford [...] - Niente di così semplice. Niente di così banale. Sul loro mondo, gli abitanti sono esseri umani come noi. I leader invece sono lucertole. Il popolo odia le lucertole e le lucertole governano il popolo.
- Strano - disse Arthur. - Mi pareva che avessi detto che la loro è una democrazia.
- L'ho detto - disse Ford - perché in effetti è così.
- Allora - disse Arthur, augurandosi di non sembrare troppo idiota - perché il popolo non si libera dalle lucertole?
- Non gli passa neanche per l'anticamera del cervello - disse Ford. - Tutti quanti hanno il diritto di voto, quindi pensano che il governo che hanno eletto sia grosso modo il governo che volevano.
- Intendi dire che di fatto votano per le lucertole?
- Sì, certo - disse Ford, scrollando le spalle.
- Ma... - disse Arthur, preparandosi di nuovo a fare una domanda importante - perché?
- Perché se non votassero per una lucertola - disse Ford - potrebbe essere eletta la lucertola sbagliata.
- [...] parlami delle lucertole.
Ford scrollò di nuovo le spalle.
- Alcuni sostengono che il governo di lucertole sia la cosa migliore mai capitata a quel popolo - disse - hanno torto marcio, naturalmente, torto supermarcio, ma c'è chi arriva a dire cose del genere.

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mercoledì 14 marzo 2018

Recensione - Annientamento


Regia di Alex Garland

Originale Netflix


Annientamento (Annihilation) è il primo romanzo della Trilogia dell'Area X, di Jeff Vandermeer. Nel libro si raccontano le disavventure di una biologa e del suo team di scienziate all'interno della misteriosa Area X, una zona in cui le leggi della fisica e della biologia sembrano essere state sovvertite. La squadra della biologa è l'ultima di una lunga lista, perché nessuno è mai tornato dall'Area X per riferire ciò che aveva visto.

Questo il romanzo, un best seller internazionale che pure un lettore di fantascienza occasionale come il sottoscritto non ha potuto non apprezzare. Poi arriva Netflix e mi mette lì davanti il trailer del film, protagonista Natalie Portman, regia di Alex Garland. Wow, che figata! Guardalo, guardalo... Gollum!


Così lo guardo. La prima mezzora è pura sofferenza: i ritmi sono lenti ed enormemente dilatati, i dialoghi contengono lunghe pause e spesso sono del tutto inverosimili, molto vicini al registro di un fumetto, davvero poco credibili in bocca a persone vere, che oltretutto pronunciano una frase ogni quarto d'ora.

Ad aggravare questa prima impressione negative le musiche, completamente fuori luogo. I brani di chitarra sembrano decisamente più adatti a raccontare l'america rurale in un film di David Lynch, che a sottolineare momenti di tensione in cui l'eroina si aggira furtiva tra l'erba alta cercando di non farsi aggredire dalle strane presenze dell'Area X. 


Infine gli effetti speciali: molto spesso hanno un che di posticcio, come accade per i fiori mutanti e per le strane concrezioni che avvolgono gli edifici (e i precedenti visitatori dell'Area). Sembrano ammiccare all'arte di Guillermo del Toro, che si affida più volentieri ad oggetti concreti rispetto alla Computer Grafica, senza però raggiungerne l'efficacia e la potenza visiva.

Quando finalmente la vicenda entra nel vivo, però, devo ammettere che il film si riprende. Annientamento non è un action movie, ma riesce in questa seconda parte a trasferire una buona - seppur non eclatante - dose di tensione, e alcune scene dai tratti decisamente gore, dove il dettaglio truculento però non è mai abusato, inquadrato quel tanto che basta per non snaturare l'equilibrio della pellicola, che cerca sempre di mantenersi in bilico tra il thriller e la sci-fi psicologica.


Nella caratterizzazione dei personaggi risiede a mio avviso un'altra possibilità mancata di Annientamento. Il gruppo della biologa Natalie Portman (lei compresa) è appena abbozzato nei tratti caratteriali e nel vissuto personale, con la caratterizzazione affidata quasi esclusivamente a un breve dialogo durante uno spostamento in barca nell'Area X.

Molte delle stranezze che le ragazze incontrano sono figlie dell'adattamento cinematografico, e non compaiono nel romanzo di Vandermeer; alcune, come le piante antropomorfe e gli strani essere che nuotano nelle acque dell'Area, sono originali e ben inserite nelle atmosfere oniriche che caratterizzato lo strano luogo, nel film più che nel libro.

Nonostante ciò che può sembrare alla fine il bilancio è positivo, e Annientamento pare aver avuto un buon riscontro nelle critiche. Non passerà alla storia come il miglior adattamento di sempre, ma sono molto contento che Netflix stia investendo nel fantastico. Dopo la piacevole sorpresa di Bright, scoprire Annientamento è stato bello, mi auguro che il progetto preveda il completamento dell'intera trilogia.


Anche se questo film prende una direzione piuttosto diversa da quella del primo romanzo della serie (che rimane a finale assolutamente aperto ed è ancora più misterioso), sono davvero curioso di vedere come va a finire, perché il regista Alex Garland è riuscito a trasmettermi la stessa sensazione di vuoto che Truman Capote descriveva così: "Finire un libro" diceva, "è come prendere un bambino, portarlo in cortile e sparargli".
Un grande vuoto, sì, che spero di colmare presto.

Recensione - Il Corvo


by The Gardener87


Regia di Alex Proyas, 1994.

Qualche giorno fa è stato ufficialmente annunciato che l'11 ottobre 2019 uscirà il remake de "Il Corvo", film del 1994 tratto dall'omonimo fumetto indipendente di J. O’Barr, dove vedremo Jason Momoa vestire i panni di Eric Draven, sperando che non gli vadano troppo stretti, vista la notevole differenza di stazza con il suo predecessore Brandon Lee.


Immediatamente mi muovo in cerca di qualcuno con cui condividere i miei timori, reduce dalle cocenti delusioni dei vari reboot/sequel/prequel che infestano le sale cinematografiche negli ultimi anni e ... 

“In che senso non hai mai visto Il Corvo?”
Ricordo perfettamente di avere avuto questa conversazione centinaia di volte, anche con le stesse persone, senza che il mio disappunto diminuisse.
Come non avete mai visto il corvo?

Evidentemente abbiamo qualcosa di cui parlare.
Il Corvo del regista Alex Proyas (Io, Robot) è un classico, un vero e proprio cult per dark/hard-rocker e non solo.
Questo adattamento cinematografico del fumetto di J. O'Barr buca lo schermo sia per l'eccellente traduzione del linguaggio dei due differenti media, sia per la tragica sorte del protagonista Brandon Lee, rimasto ucciso durante un incidente di produzione.



In questo capolavoro del gotico moderno il protagonista Eric Draven (Brandon Lee) ritorna dal mondo dei morti per vendicare la propria fidanzata, stuprata e assassinata la notte di Halloween da una banda di balordi al soldo del sinistro Top Dollar, interpretato dal magnifico Michael Wincott, uno dei miei attori preferiti, che non ricordo di aver mai visto interpretare altro che “cattivi” (il cugino dello sceriffo in Robin Hood: Principe dei Ladri, il rapitore in Nella Morsa del Ragno e il capo dei banditi in Alien: Resurrection...), che qui da vita a un morboso ed elegantissimo capobanda che altro non vuole se non “divertirsi come si deve”.



Eric “Il Corvo” è un invincibile Revenant, che intreccia la sua dolorosa storia di vendetta ed estraniante solitudine, con un poliziotto di colore (Ernie Hudson) e una ragazzina un po' sbandata, trascurata dalla madre tossicodipendente.
Nel dare la caccia ai responsabili del brutale omicidio ripercorre i passi della propria storia d'amore, visitando i luoghi in cui lui e Shelley si sono amati e sono morti, ritrovando oggetti e fotografie che evocano i ricordi di una vita finita senza speranza.



La scenografia mette in scena una città malata fatta di degrado e criminalità, desaturata come i sentimenti di chi ne percorre le strade in cerca di qualcosa capace di risollevarli dal torpore in cui si sono rifugiati.

La colonna sonora chiama a raccolta gruppi musicali punk/rock di primissimo piano, primi fra tutti i The Cure, inserendo performance live che riempiono le scene di un mood goth avvolgente come un cappuccio di velluto nero.
I dialoghi e le battute del Corvo-Eric sono stupendi, il suo senso dell'umorismo, il suo atteggiamento buffonesco, le sue rime ricordano il cantante che era stato in vita e che continua a essere nella (non) morte, un umorismo ancora più musicale in lingua originale, senza nulla togliere all'ottimo doppiaggio italiano.



Non da ultime vengono le gustosissime scene d'azione in cui l'eroe dannato affronta con gran stile i depravati criminali che lo ostacolano.
Ma anche per l’invincibile Corvo la situazione può precipitare. Prima che tutto finisca Eric dovrà rischiare qualcosa di molto più importante della propria vendetta personale.

Parlando de Il Corvo parliamo di un classico che trasuda stile a ogni cambio di inquadratura e regala citazioni memorabili a ogni dialogo.
Parliamo di un grande film che anche a distanza di molti anni conserva inalterato il proprio fascino e con un ritmo tuttora assolutamente moderno.

Non vi ho catechizzato a sufficienza?
Correte a vedere Il Corvo prima che continui!


martedì 20 febbraio 2018

Recensione - L'Immortale

Blades of the Immortal


Originale Netflix

The Gardener87


Con le sue rivisitazioni di classici del Sol Levante, Netflix continua a riportare alla luce perle del passato. Ultima di questa serie è il live action de L’Immortale (Blades of the Immortal), capolavoro a fumetti di Hiroaki Samura. Il fumetto è stato pubblicato tra il 1993 e il 2012 e narra le vicende di un ronin condannato all’immortalità.


Perché dico “condannato”?
Dopo avere visto quante volte il protagonista Manji viene fatto a fettine da spadaccini psicopatici che impugnano strane lame, credo che "condanna" sia un termine persino insufficiente a descrivere la tragedia della sua condizione, ma cercherò di darvi una visione d’insieme dell’opera da cui è tratto il film senza divagare troppo.


In piena epoca Tokugawa il ronin Manji, già ricercato per l’omicidio di cento uomini (un numero impressionante, ma destinato comunque a impallidire di fronte alla mattanza che seguirà), riceve il dubbio dono dell’immortalità da una vecchia misteriosa. Per liberarsi da quella che considera una maledizione lo spadaccino fa dunque voto di "uccidere mille scellerati". 

La vicenda inizia col debutto sulla scena di una nuova scuola di arti marziali, l'Ittoryu, capeggiata da Kagehisa Anotsu, la quale inizia a farsi largo con violenza nell'eterna contesa tra i diversi dojo dediti alla pratica della spada. Più simile a una banda di serial killer che a una scuola di arti marziali, l’Ittoryu basa la sua disciplina sul rigetto della tradizione, mettendo la vittoria e il valore marziale al centro, trascurando tutte le formalità e le regole della scherma convenzionale.


Nella lotta per la supremazia Anotsu uccide i genitori della giovane Rin, la quale, su suggerimento della vecchia, si rivolge a Manji per compiere la propria vendetta.
Inizia così un cruento viaggio, durante il quale numerosi personaggi mostreranno una profondità maggiore del previsto, e attraverseranno la linea che divide amici e nemici in diverse occasioni.

Come potete immaginare l'Immortale è ben lontano dalla compostezza formale di Vagabond, di Takehiko Inohue, con molta più azione e, soprattutto, molto più pulp.



Nel fumetto la qualità delle tavole è elevatissima, i personaggi sono fantastici, gli scontri avvincenti e sanguinosi. Il ritmo rimane alto per i primi due terzi della serie, per poi rallentare come spesso capita nei manga, andando a impantanarsi in un finale un po’ ripetitivo.


Da questo materiale prende le mosse il film targato Netflix, che, pur rivisitando in parte il materiale per comprimere 30 volumi in un paio d’ore, è sorprendentemente fedele allo spirito del fumetto.

Gli attori sono tutti assolutamente asiatici, i tempi e le inquadrature ricordano i classici del genere chambara diretti da Akira Kurosawa (I sette Samurai, La sfida del Samurai).

Quello che ne risulta è un classico film “di genere” che, in una certa misura, può risultare un po’ lento a uno spettatore abituato al dinamismo dei film contemporanei, con una colonna sonora piuttosto rarefatta e dialoghi leggermente dilatati che ricalcano lo stile degli anime.
I personaggi principali ci vengono presentati attraverso le proprie caratteristiche distintive. Scopriamo così il malatissimo Kuroi Sabato insieme ai suoi orribili haiku, il sadico Shira e ovviamente Kagehisa Anotsu.



Un po’ sottotono il personaggio di Magatsu, che nel fumetto ha un ruolo ben più importante, ma non si può pretendere tutto da un adattamento come questo.

La storia del live action di Netflix si conclude grosso modo a metà della storia del fumetto, proponendo un finale diverso senza avventurarsi nella parte più debole dell’opera originale. Pur essendo la conclusione che si potrebbe immaginare, questa giunge in qualche misura all'improvviso, quando ancora ci si aspetterebbe qualche altro sviluppo prima del'epilogo, ma potrei essere stato condizionato nel giudizio dall'avere letto il fumetto alla sua uscita.

Concludendo, questo Immortale targato Netflix, pur con qualche difetto, è molto godibile: gli amanti del genere cappa e spada giapponese sapranno sicuramente apprezzarlo, mentre per altri potrebbe rappresentare una valida occasione per avvicinarsi a un genere da cui il cinema d’azione moderno ha tratto molti elementi.
Insomma…
Per me è Sì.


venerdì 5 gennaio 2018

Recensione - La saga di Mordraud

TheGardener87



Ho tenuto questo libro a prendere polvere digitale sulla libreria (digitale) per un po', vuoi perché ero impegnato da altre letture (Horus Heresy, sempre e solo Horus Heresy) vuoi perché il fantasy uscito negli ultimi anni, italiano e non solo, mi ha sempre lasciato un po' l'amaro in bocca.
Quando ho finalmente deciso di iniziarlo ero quindi piuttosto titubante, ma questo romanzo è dell'amico di un amico, e mi sono sentito in dovere di leggere un libro presentato al ComiCon nel 2014, scritto da un autore non solo italiano, ma persino della mia stessa provincia.
Racimolata risolutezza a sufficienza per avvicinare le prime pagine, in poco tempo mi sono trovato a leggere un prodotto di qualità e con un racconto dall'impianto classico ma non banale.
 


Questo libro racconta la storia di tre fratelli, Dunwich, Mordraud e Gwern, spinti alla grandezza dalla loro eredità ancestrale, ma inconciliabilmente separati da un destino avverso; sul sito della saga campeggia in prima pagina il motto "ogni famiglia racchiude in sé i drammi del mondo", quindi possiamo aspettarci che per questi disgraziati le cose non andranno troppo bene.
La narrazione si apre con un flash forward, una scena collocata alla fine dell'intera trilogia e anticipatrice dell'epilogo, ma, se siete come me, la meta non significa niente senza il viaggio necessario a raggiungerla, perciò sono andato avanti per scoprire quali vicende avevano portato a una simile conclusione gravida di malinconia, e che promette sottovoce nuove tempeste; una volta girata l'ultima pagina posso dire che il primo terzo del viaggio è stata una piacevole sorpresa.
 
Lo stile è un po' crudo, molto terreno e magari con un registro un po' troppo contemporaneo, in particolare nei dialoghi, dove l'autore fa frequente ricorso alle parolacce, forse con l'intento di rendere la narrazione viscerale e dare ai personaggi voci più realistiche; personalmente ritengo che nel fantasy "classico" l'uso di termini scurrili renda i dialoghi più spigolosi, spogliando l'atmosfera di qualcosa del suo fascino dal sapore antico, ma si tratta di un'opinione strettamente personale.


Nel corso della storia alcune rivelazioni sono seminate con tale cura e anticipo che quando arrivano c'è ormai poco da scoprire, ma nonostante ciò le pagine scorrono veloci, con una sapiente alternanza tra i punti di vista dei diversi protagonisti.
Tutti e tre i personaggi principali sono ben caratterizzati, dotati di pregi, e – soprattutto – difetti, che li rendono molto umani: la loro debolezza e occasionale superbia smorzano l'eccezionalità delle doti, favorendo molto l'immedesimazione negli eroi e nel loro dramma familiare, specchio di quello delle fazioni in contrasto.

Mordraud e Dunwich sono i protagonisti del primo libro, riservando a Gwern un percorso sicuramente importante che verrà a maturazione nei seguenti capitoli: i fratelli crescono diventando persone diverse, seppur simili nel profondo, segnate dall'ambiente culturale in cui sono immerse e da coloro che le guidano nel difficile passaggio tra infanzia ed età adulta, arrivando a far sfociare in scontro armato il rancore mai sopito, ribollente già dalle prime pagine.


Questa saga non è composta da tre capitoli separati ma è un unico arco narrativo diviso in tre libri, perciò, finito il primo libro, se volete sapere come si è arrivati alla scena di apertura, sarete costretti a leggere anche gli altri due, anche se io non l'ho ancora fatto.
Horus Heresy.
Sempre Horus Heresy.
Ho perso il conto di Horus Heresy.
Ma come va a finire questa saga di Mordraud voglio proprio scoprirlo.

Questo primo libro della saga di Mordraud magari non è perfetto, ma sicuramente ha qualcosa da raccontare, e, in questo panorama fantasy asfittico con in prima linea scritti mediocri, o ancora peggio, niente affatto fantasy (distopico=fantasy, fantascienza=fantasy, un RAL oltre 30.000€=fantasy) fa sperare che il rinnovamento di questo genere importante non sia solo un'utopia, e che magari potrebbe muovere qualche passo anche in terra nostrana.

Piccole cose oscure - Poesia







mercoledì 3 gennaio 2018

Habeas corpus

 
Era la sera del dodicesimo giorno di dicembre dell'Anno del Signore mille-duecentoquaranta, quando i due cavalieri, avvolti in spessi mantelli di lana, giunsero nei pressi dell'innevato e fangoso borgo di Traversara.
Traversara era sorto nei pressi di un castello – poco più di una casa turrita con loggiato –, a guardia di uno dei tanti fiumiciattoli navigabili che sfociava nella valle Fenaria, a un giorno dal porto di Ravenna.
L'anno non era stato dei migliori. Paolo Traversari, decidendo di cambiare fazione, si era alleato coi guelfi Bolognesi attirando su Ravenna l'ira dell'Imperatore. Federico II aveva deviato i fiumi per seccare le paludi e assaltato due volte le porte cittadine, prima che i traditori ghibellini le aprissero dando via libera alle truppe imperiali e alla loro vendetta.
Paolo Traversari era morto durante la battaglia mentre suo figlio Guglielmo era sfuggito alla cattura, rifugiandosi nei territori natii, nel borgo di Traversara, per l'appunto.
Messer Guglielmo aveva già ricevuto i messi dello svevo, per motivi politici che ai due cavalieri non era dato sapere. Tuttavia era proprio per quei motivi che erano costretti a viaggiare sfidando le intemperie.

Quando finalmente si affacciarono sul borgo, stanchi e infreddoliti, era ormai l'imbrunire, e le strade erano deserte. Le case di laterizio, trasandate e parzialmente ricoperte dalla neve sporca di fuliggine, rappresentavano un ben misero epilogo per il loro viaggio. Per fortuna dei due, nella piazza principale, ai piedi del “castello”, si trovava una taverna da cui proveniva un vociare soffocato.
Nell'osteria di Traversara la vita scorreva placida. I paesani se ne stavano a chiacchierare attorno a semplici tavoli sostenuti da cavalletti, gustando vino davanti a moccoli di sego poco luminosi; terminata la coppa avrebbero fatto ritorno alle loro case, ponendo fine a un giorno qualunque. Per l'oste Domenico, invece, il tempo di andare a dormire era ancora lontano.
Il locale era riscaldato da un caminetto sulla parete di fondo da cui provenivano fumo e promesse di stufato di anguilla, che la moglie di Domenico stava preparando per cena. Tra i tavoli si destreggiavano, agili e vivaci, le loro figlie, Silvana e Maria, due ragazze molto avvenenti intente a consegnare brocche e schivare le mani troppo lunghe di avventori scandalosamente audaci.
Nonostante l'atmosfera piuttosto chiassosa, Domenico sentiva che quella sera la consueta allegria era appannata da una sottile inquietudine per colpa dei sussurri sull'efferato omicidio del messo imperiale. Si diceva fosse stata opera di un mostro e, anche se tutti ne parlavano – tra preghiere e invocazioni, tentando di minimizzare l'accaduto e badando a tener sempre bassa la voce –, avevano davvero paura di cosa sarebbe potuto accadere dopo.
Sicuramente i funzionari dell'Imperatore avrebbero mandato qualcuno, e quello sarebbe stato ben peggiore che affrontare un mostro. La sorte della città di Ravenna ne era una chiara testimonianza.


Il vociare si interruppe bruscamente quando una folata di vento gelido attraversò la sala. Il fumo si dissipò in vortici, aprendosi su due figure ferme sulla soglia, circondate da mantelli da viaggio fin troppo simili a sudari. Calò il silenzio, quasi sulla porta si fosse presentato l'angelo della Morte. I mantelli scuri portarono alcuni a farsi il segno della croce e invocare l'aiuto di san Michele Arcangelo. Quando il primo dei cappucci si abbassò rivelò un viso anziano dall'aspetto benevolo, ma dallo sguardo attento e calcolatore. I capelli brizzolati e le rughe avrebbero indotto a pensare che si trattasse di un vecchio viandante, ma i tremuli riflessi della luce sulla cotta e sull'elsa della spada che sbucavano dal mantello, rivelavano una storia ben diversa.
Il compagno del vecchio appariva ancora più temibile, nonostante fosse poco più che un giovanotto. Alto e ben piazzato, aveva un viso all'apparenza angelico, su cui si aprivano occhi che avevano visto ben più di quanto il Signore avrebbe dovuto mostrargli. Domenico riconobbe subito quello sguardo disilluso, lo aveva già visto durante i suoi viaggi giovanili, prima di trasformarsi in taverniere. Senza nemmeno accorgersene, l'oste sfiorò la cicatrice lasciatagli in viso da una scimitarra nella sua vita passata.
Il ragazzo, al contrario del suo compagno anziano con la cotta d'arme blu e oro degli Anastasi di Ravenna, indossava solamente una cotta di maglia con uno sdrucito farsetto rosso sbiadito, lo stemma imperiale cucito sul petto. “Un sergente”, intuì Domenico.
Il Silenzio continuò a saturare la stanza fin quando i due forestieri, dopo aver appeso i mantelli fradici al muro, presero posto al limitare di un tavolo ancora libero per metà. Pareva non volessero spaventare troppo agli altri avventori, già visibilmente scossi.
Domenico, dal suo posto accanto alle botti, si avvicinò ai nuovi avventori con un sospiro.
I due non parvero molto loquaci, tuttavia si presentarono secondo l'etichetta. Il nobile rispondeva al nome di messer Pietro Anastasi ed era l'investigatore incaricato dal Gonfaloniere di Ravenna, mentre il più giovane era Carlo Mainardi, Serragente dell'esercito dell'Imperatore stanziato in Ravenna. Domenico comprese subito che la cosa era seria. Un messo imperiale e un investigatore avrebbero presto trovato un colpevole. Il suo timore era che fosse realmente il colpevole...

Maria e Silvana servirono immediatamente i due ufficiali, i quali presero a guardarsi intorno cercando di capire con chi avessero a che fare. Dopo qualche attimo, Pietro si alzò in piedi schiarendosi rumorosamente la voce, ottenendo un nuovo, opprimente silenzio. Quando parlò, fu come udire la voce di Dio nel Giorno del Giudizio.

«In nome di Sua Maestà l'Imperatore e di Sua Eccellenza il Podestà di Ravenna, informiamo che il borgo di Traversara è attualmente inquisito per l'ignobile assassinio del Messo Imperiale Wilhelm Fugger, occorso tre giorni or sono. Pertanto, chiunque possegga informazioni utili, è pregato di presentarsi al mio cospetto, per dichiarare quanto conosce.» La voce dell'uomo, forte e salda, dovette instillare negli animi dei presenti una certa soggezione, poiché alcuni lasciarono frettolosamente la locanda, in fuga da una faccenda che, sapevano, sarebbe divenuta troppo insidiosa, attirando su di sé gli sguardi gelidi dei due nuovi venuti.
Qualche minuto dopo, al termine di un pasto concluso con calma affettata nonostante il proclama di messer Anastasi, uno dei frequentatori abituali dell'osteria, ben vestito, anche se chiaramente non ricco, lasciò il suo posto. Si alzò ripulendosi la bocca con la manica, camminando con passo sicuro e altero verso i due messi. Al fianco portava una spada al cui ingombro pareva essere abituato. Sarebbe potuto apparire un bell'uomo, se non fosse stato per l'orrenda butteratura sul viso.
«Sono Alcide Cavalieri, Bargello di Traversara. Servo vostro, miei signori.»
I due ufficiali imperiali ricambiarono il saluto, per nulla impressionati dalla presentazione inutilmente pomposa, poi i tre iniziarono cordialmente a discorrere tra un bicchiere di vino e l'altro, sempre sotto stretta osservazione di Domenico, che non intendeva perdersi nemmeno un battito di ciglia. La gentilezza dei messi del Gonfaloniere poteva tramutarsi in una condanna nel tempo di un Amen.

 
Il Bargello raccontò che erano stati i suoi a recuperare il corpo. La vittima sembrava essere stata squartata da una fiera: le viscere erano fuoriuscite e si sarebbe potuto accusare un lupo, se non fosse stato per i tagli sulle braccia, come se il messo avesse voluto difendersi da un attacco improvviso. Ovviamente Alcide aveva fatto rimuovere il corpo quasi immediatamente, ordinando che si portasse nella chiesa di Santa Maria in Scheta, poco distante dall'osteria. Nessuno, oltre a lui stesso, due guardie e gli ecclesiastici aveva visto nulla, ma i sussurri che facevano da contraltare alla loro conversazione rivelavano chiaramente che il dono della riservatezza non era poi molto diffuso da quelle parti.
Il Bargello precisò che il messo era giunto di mattina presto, mentre il suo corpo esanime era stato ritrovato dalla ronda ben dopo l'imbrunire, il che, aggiunse con sguardo ironico, avrebbe dovuto aiutarli a mantenere una certa discrezione.
Alcide riferì anche che dal corpo non era stato preso nulla, nemmeno il denaro.

Quei particolari parvero disorientare i due investigatori, tanto che messer Pietro dichiarò che, anche se a tutti gli effetti l'odioso crimine appariva come un omicidio passionale, compiuto forse per gelosia o per vendetta, non poteva esserlo, dato che il povero messer Wilhelm non era mai stato da queste parti prima, né trovava giustificazione la violenza operata sulla vittima, che di certo non poteva essersi macchiata di colpe tali da motivarla.

Perché tanta brutalità su un uomo dell'Imperatore, nel bel mezzo del borgo? Davvero aveva suscitato nel prossimo tanto odio in un giorno soltanto?
Eppure, difficilmente poteva trattarsi di una ritorsione politica. Cosa avrebbe potuto Traversara dopo che anche Ravenna era caduta così miseramente? Messer Pietro si grattò la nuca.
«I miei signori desiderano dare uno sguardo al corpo?» domandò il Bargello. Il tono era quello di chi stesse offrendo un'altra fetta di torta ai suoi ospiti.
Prima di congedarsi Alcide aggiunse che in tal caso la mattina seguente li avrebbe accompagnati in chiesa. Pietro e Carlo acconsentirono, ma il Serragente aggiunse che per l'indomani si organizzasse un raduno della popolazione nella chiesa stessa, affinché tutti potessero essere interrogati.
Sì, decise Domenico, strofinando una coppa di legno: quegli sciocchi avrebbero fatto meglio a restare seduti, invece di farsela sotto e andare a rinchiudersi in casa.
Il Bargello si accomiatò cordialmente con un cenno del capo, lasciando che i due messi potessero riposarsi dalle fatiche del viaggio.


Il giorno seguente, poco dopo l'alba, messer Pietro e Carlo si ritrovarono con Alcide, mentre le guardie cominciarono il rastrellamento della popolazione radunandola verso la chiesa. Il Serragente, ponendo fede che il tempo non peggiorasse di nuovo, allestì sul sagrato un tavolo da interrogazione.
Padre Giovanni, il parroco – un omone dal corpo di cavaliere più che di prete –, sopportò di buon grado tutto il trambusto, e accompagnò messer Pietro all'esame del corpo.
La cripta era fredda e buia, umida, e questo cominciava a danneggiare il corpo: nonostante fosse stato cosparso di rametti di rosmarino e semi di finocchio, appestava l’aria con gli effluvi tipici della morte. Quando Pietro lo esaminò lo trovò lindo e pulito, con appena una leggera smorfia di dolore impressa sul viso – in stridente contrasto con l'efferatezza dell'aggressione – e trovò i segni di piccole stoccate che dal palmo delle mani uscivano sul dorso. Colpi inferti con violenza da una lama sottile e corta, simile a quella di un temperino. Non un grande aiuto, in verità: tutti, bambini compresi, ne portavano uno per le faccende quotidiane.

Pietro decise di esaminare anche gli oggetti del defunto, così il parroco chiamò il suo canonico, frate Ugo. Era sulla trentina, il fisico gracile e una vistosa gobba sulla schiena; un francescano. Il saio aveva le maniche troppo lunghe, e il volto, lo sguardo elusivo, suscitò in Pietro una certa familiarità, forse il ricordo di qualcuno conosciuto altrove. Il monaco giunse con un involto contenente i vestiti strappati e intrisi di sangue di Wilhelm, la sua spada e la sua misericordia infoderate – parevano nuove –, una scarsella con pochi ravegnini piccioli e alcuni bolognini grossi. Il denaro non era molto, ma più di quello che una persona comune avrebbe racimolato in mezzo anno di duro lavoro. Esclusi il furto e il delitto politico, Pietro tornò a interrogarsi sull'ipotesi passionale. Che si trattasse davvero della cieca furia di un amante deluso? Quale fanciulla era riuscita a scatenare tanta brutalità in un uomo?

Quando riemerse dalla cripta, ancora perso nei suoi pensieri, trovò Carlo intento a incidere appunti con uno stilo di bronzo su un taccuino fatto di tavolette di cera. Anche se i villici non erano molti, nel breve tempo dell'esame sul cadavere Carlo non sarebbe stato capace di interrogarli tutti. Così si sorprese quando il suo compagno si affrettò a ragguagliarlo su quanto scoperto dalla voce di una testimone diretta, Domenica Bubani, figlia della lavandaia, una giovane timida e timorata di Dio.
Era emerso che la mattina in cui Wilhelm era giunto al borgo, mentre si recava in locanda, si era imbattuto nella giovane che, piangente, quasi gli era caduta addosso. Il messo, dopo averla accolta benevolmente tra le sue braccia, l'avrebbe rassicurata e interrogata sull'accaduto, venendo a conoscenza della mano pesante e dell’indole violenta del padre di lei. Persino la moglie di costui recava sul viso una deformità alla mascella dovuta alle percosse. Wilhelm, evidentemente dotato di un cuore onorevole, si sarebbe recato a parlare col padre della fanciulla, causando una colluttazione in cui l'uomo, Antonio Bubani, avrebbe avuto la peggio. Domenica per ringraziarlo del suo intervento gli avrebbe regalato un fazzoletto con una margherita ricamata.
Carlo, scusandosi per non essere riuscito a scoprire qualcosa riguardo alla morte di Wilhelm, indicò la fanciulla in questione. Era una ragazza nel fiore degli anni, dal viso delicato, bella come un mattino di primavera ma deturpata da una zoppia conseguenza delle vessazioni subite. I due messi rimasero per qualche istante a fissare Domenica, ancora ferma sul sagrato e affidata alle confortanti premure di frate Ugo, e si accorsero di non essere gli unici, anche se non tutti guardavano la ragazza con benevolenza.
Tra la folla scorsero l'astio del padre, già inebriato dai fumi dell'alcol di prima mattina, la frustrazione della madre, sul punto di scoppiare in lacrime, e l'espressione indecifrabile dell'oste, che pareva essersi fatto carico del ruolo di chi controlla il controllore.
All’improvviso, come in un'epifania, Pietro collegò quanto riferito da Carlo a quanto esaminato nella cripta, e parlò ai paesani: «Qualcuno, tra voi» tuonò «si è macchiato di un crimine orrendo, ed è così arrogante da portare addosso la prova di tale reato. Uno di voi» ripeté, lasciando vagare lo sguardo «ha recato offesa a Dio e all'Impero, e oggi sarà punito.»


Il cavaliere prese in disparte il Serragente e d'un tratto Domenico comprese che dovevano avere scoperto qualcosa, e occorreva stare attenti. Qualsiasi cosa la ragazza avesse raccontato doveva essere più che sufficiente, nonostante lui conoscesse dettagli che gli altri ignoravano. Cominciò a fissare la sua preda, colui che immaginava come il più probabile sospetto per quel crimine, pronto ad agire.
I due investigatori fecero rincasare i paesani, molti dei quali erano reticenti a tornare alle faccende di casa dopo quell'intrigante e macabro diversivo.
Domenico non se ne andò subito, ma si attardò sul sagrato, continuando a vigilare fino a quando i due stranieri gli si avvicinarono per domandargli del cavallo di Wilhelm. Pressato dalla loro autorità, perse di vista il suo colpevole e, a malincuore, li condusse alle stalle dell'osteria. Lungo la strada si interrogò se rivelare i suoi sospetti agli investigatori, ma si trattenne: un'ingiusta accusa sarebbe stata un peccato grave.

Accanto allo splendido roano di Wilhelm, si trovavano la sella e le sacche appartenute al messo, un po’ sbilanciate sul cavalletto che le sosteneva. I due le esaminarono a fondo e, dentro di esse, trovarono quello che stavano cercando. Il fazzoletto con la margherita ricamata apparve nelle mani di Carlo assieme a un dettaglio inatteso: la stoffa era macchiata di sangue. L'impronta di una mano insanguinata era chiaramente visibile. Solamente l'assassino poteva averla portata lì; Wilhelm non aveva ferite alle mani precedenti al suo decesso, e di certo non aveva riposto il fazzoletto dopo l'aggressione. La macchia inoltre era più densa in un punto, vicino al pollice, si era allargata nel punto in cui la stoffa era stata stretta: l'assassino doveva essersi ferito al momento dell'aggressione.

Domenico quindi comprese: il suo sospetto doveva aver portato lì il fazzoletto quando Pietro gli aveva chiesto delle stalle, in tutta fretta. Se era così, doveva trovarsi ancora nei paraggi. L'oste corse via dalla stalla, convinto di riuscire a catturare il colpevole, ignorando le grida dei messi stupefatti. La sua mossa indusse i due cavalieri a inseguirlo. Anche se rallentato dalla cotta il Serragente gli fu subito dappresso. Domenico corse a perdifiato: se avesse fallito, Dio avrebbe dovuto avere cura della sua famiglia.

Carlo non sapeva spiegare la reazione dell'oste, non gli era parso un cattivo uomo, ma un innocente non fugge. Doveva catturarlo. Lo vide scartare improvvisamente a sinistra verso una zona innevata che separava la chiesa dall'osteria. Solo allora si accorse dell'altra figura scura che correva con incedere agile, seppur scomposto, diretta verso la chiesa, piegata in avanti come fosse protesa verso una meta ormai vicina. L'oste accelerò, sorprendendo Carlo col suo vigore, e si gettò come una furia sulla sagoma gibbosa del fuggitivo, buttandolo in mezzo alla neve. I due si accapigliarono, poi lo sconosciuto lanciò un urlo quasi disumano, e un guizzo argenteo apparve tra i due. Carlo arrivò nel momento stesso in cui vide il metallo macchiarsi di sangue, e l'oste scagliare un violento pugno al volto della figura distesa sotto di lui, facendole perdere i sensi. Carlo spostò violentemente Domenico da sopra l'uomo, ormai incosciente, mentre Pietro, affaticato, li raggiunse e si sincerò delle condizioni dell'oste, a malapena scalfito da un temperino da amanuense.
Il vecchio messo, ripreso fiato, constatò che la figura a terra altri non era che fratello Ugo, la cui mano sinistra, ancora stretta attorno al temperino, era fasciata per una ferita precedente.


Fratello Ugo fu arrestato, Domenico contemporaneamente biasimato e ringraziato per il suo ardire. Gli investigatori condussero il frate francescano in chiesa, dove ascoltarono la sua confessione.
Sotto pressione rivelò la sua illecita brama d'amore per Domenica, per quella pia fanciulla che passava tanto tempo in sua compagnia e lo aveva costretto a gravi penitenze nel tentativo di resistere alle tentazioni della carne. Poi aveva visto lo sguardo di Domenica per il cavaliere alemanno. Lui avrebbe dovuto soccorrerla, un servo del Signore, il suo confessore, non uno straniero con l'unico merito di essersi trovato sulla via di lei nel momento del bisogno! Aveva visto il bacio rubato da quel barbaro prima che lei gli regalasse un pegno d'amore fatto di lino, un lino che lui stesso le aveva regalato mesi addietro!
L'ira lo aveva accecato. Aveva atteso che il cavaliere facesse ritorno alla stalla dell'osteria, a lungo, troppo a lungo. Le immagini che la sua mente inventò per giustificare quel ritardo moltiplicarono la sua furia. Quando vide il germanico congedarsi da un abbraccio della fanciulla, impunemente, in pubblico – in presenza della madre stessa di Domenica! – attese che le due donne sparissero alla vista, e senza che Wilhelm se ne avvedesse, lo aggredì gettandolo a terra, colpendo con tutta la forza che aveva in sé, straziandone il corpo, cercando dentro di esso qualcosa che giustificasse l'amore di Domenica per lui – doveva esserci! –, ma per quanto frugasse, non trovò altro che viscere e sangue peccaminoso. Si consolò riprendendo il fazzoletto, il suo fazzoletto.
Dopo il resoconto, Pietro ricordò dove avesse visto quel frate, all'epoca rispondente al nome di Ugo Onesti, un depravato violento frustrato dalla propria deformità, un lascivo capace di compromettere la virtù della sua stessa sorella. Condannato era riuscito a fuggire e a far perdere le sue tracce. Punendolo per le sue colpe, ora l’avrebbero risarcita.

Pietro era affranto per la morte di Wilhelm, ma poi comprese la ragione per cui Dio li aveva voluti a Traversara: giustizia. Giustizia per due anime indifese.