Era la sera del dodicesimo giorno di dicembre dell'Anno del Signore mille-duecentoquaranta, quando i due cavalieri, avvolti in spessi mantelli di lana, giunsero nei pressi dell'innevato e fangoso borgo di Traversara.
Traversara era sorto nei pressi di un castello – poco più di una casa turrita con loggiato –, a guardia di uno dei tanti fiumiciattoli navigabili che sfociava nella valle Fenaria, a un giorno dal porto di Ravenna.
L'anno non era stato dei migliori. Paolo Traversari, decidendo di cambiare fazione, si era alleato coi guelfi Bolognesi attirando su Ravenna l'ira dell'Imperatore. Federico II aveva deviato i fiumi per seccare le paludi e assaltato due volte le porte cittadine, prima che i traditori ghibellini le aprissero dando via libera alle truppe imperiali e alla loro vendetta.
Paolo Traversari era morto durante la battaglia mentre suo figlio Guglielmo era sfuggito alla cattura, rifugiandosi nei territori natii, nel borgo di Traversara, per l'appunto.
Messer Guglielmo aveva già ricevuto i messi dello svevo, per motivi politici che ai due cavalieri non era dato sapere. Tuttavia era proprio per quei motivi che erano costretti a viaggiare sfidando le intemperie.
Quando finalmente si affacciarono sul borgo, stanchi e infreddoliti, era ormai l'imbrunire, e le strade erano deserte. Le case di laterizio, trasandate e parzialmente ricoperte dalla neve sporca di fuliggine, rappresentavano un ben misero epilogo per il loro viaggio. Per fortuna dei due, nella piazza principale, ai piedi del “castello”, si trovava una taverna da cui proveniva un vociare soffocato.
Nell'osteria di Traversara la vita scorreva placida. I paesani se ne stavano a chiacchierare attorno a semplici tavoli sostenuti da cavalletti, gustando vino davanti a moccoli di sego poco luminosi; terminata la coppa avrebbero fatto ritorno alle loro case, ponendo fine a un giorno qualunque. Per l'oste Domenico, invece, il tempo di andare a dormire era ancora lontano.
Il locale era riscaldato da un caminetto sulla parete di fondo da cui provenivano fumo e promesse di stufato di anguilla, che la moglie di Domenico stava preparando per cena. Tra i tavoli si destreggiavano, agili e vivaci, le loro figlie, Silvana e Maria, due ragazze molto avvenenti intente a consegnare brocche e schivare le mani troppo lunghe di avventori scandalosamente audaci.
Nonostante l'atmosfera piuttosto chiassosa, Domenico sentiva che quella sera la consueta allegria era appannata da una sottile inquietudine per colpa dei sussurri sull'efferato omicidio del messo imperiale. Si diceva fosse stata opera di un mostro e, anche se tutti ne parlavano – tra preghiere e invocazioni, tentando di minimizzare l'accaduto e badando a tener sempre bassa la voce –, avevano davvero paura di cosa sarebbe potuto accadere dopo.
Sicuramente i funzionari dell'Imperatore avrebbero mandato qualcuno, e quello sarebbe stato ben peggiore che affrontare un mostro. La sorte della città di Ravenna ne era una chiara testimonianza.
L'anno non era stato dei migliori. Paolo Traversari, decidendo di cambiare fazione, si era alleato coi guelfi Bolognesi attirando su Ravenna l'ira dell'Imperatore. Federico II aveva deviato i fiumi per seccare le paludi e assaltato due volte le porte cittadine, prima che i traditori ghibellini le aprissero dando via libera alle truppe imperiali e alla loro vendetta.
Paolo Traversari era morto durante la battaglia mentre suo figlio Guglielmo era sfuggito alla cattura, rifugiandosi nei territori natii, nel borgo di Traversara, per l'appunto.
Messer Guglielmo aveva già ricevuto i messi dello svevo, per motivi politici che ai due cavalieri non era dato sapere. Tuttavia era proprio per quei motivi che erano costretti a viaggiare sfidando le intemperie.
Quando finalmente si affacciarono sul borgo, stanchi e infreddoliti, era ormai l'imbrunire, e le strade erano deserte. Le case di laterizio, trasandate e parzialmente ricoperte dalla neve sporca di fuliggine, rappresentavano un ben misero epilogo per il loro viaggio. Per fortuna dei due, nella piazza principale, ai piedi del “castello”, si trovava una taverna da cui proveniva un vociare soffocato.
Nell'osteria di Traversara la vita scorreva placida. I paesani se ne stavano a chiacchierare attorno a semplici tavoli sostenuti da cavalletti, gustando vino davanti a moccoli di sego poco luminosi; terminata la coppa avrebbero fatto ritorno alle loro case, ponendo fine a un giorno qualunque. Per l'oste Domenico, invece, il tempo di andare a dormire era ancora lontano.
Il locale era riscaldato da un caminetto sulla parete di fondo da cui provenivano fumo e promesse di stufato di anguilla, che la moglie di Domenico stava preparando per cena. Tra i tavoli si destreggiavano, agili e vivaci, le loro figlie, Silvana e Maria, due ragazze molto avvenenti intente a consegnare brocche e schivare le mani troppo lunghe di avventori scandalosamente audaci.
Nonostante l'atmosfera piuttosto chiassosa, Domenico sentiva che quella sera la consueta allegria era appannata da una sottile inquietudine per colpa dei sussurri sull'efferato omicidio del messo imperiale. Si diceva fosse stata opera di un mostro e, anche se tutti ne parlavano – tra preghiere e invocazioni, tentando di minimizzare l'accaduto e badando a tener sempre bassa la voce –, avevano davvero paura di cosa sarebbe potuto accadere dopo.
Sicuramente i funzionari dell'Imperatore avrebbero mandato qualcuno, e quello sarebbe stato ben peggiore che affrontare un mostro. La sorte della città di Ravenna ne era una chiara testimonianza.
Il vociare si interruppe bruscamente quando una folata di vento gelido attraversò la sala. Il fumo si dissipò in vortici, aprendosi su due figure ferme sulla soglia, circondate da mantelli da viaggio fin troppo simili a sudari. Calò il silenzio, quasi sulla porta si fosse presentato l'angelo della Morte. I mantelli scuri portarono alcuni a farsi il segno della croce e invocare l'aiuto di san Michele Arcangelo. Quando il primo dei cappucci si abbassò rivelò un viso anziano dall'aspetto benevolo, ma dallo sguardo attento e calcolatore. I capelli brizzolati e le rughe avrebbero indotto a pensare che si trattasse di un vecchio viandante, ma i tremuli riflessi della luce sulla cotta e sull'elsa della spada che sbucavano dal mantello, rivelavano una storia ben diversa.
Il compagno del vecchio appariva ancora più temibile, nonostante fosse poco più che un giovanotto. Alto e ben piazzato, aveva un viso all'apparenza angelico, su cui si aprivano occhi che avevano visto ben più di quanto il Signore avrebbe dovuto mostrargli. Domenico riconobbe subito quello sguardo disilluso, lo aveva già visto durante i suoi viaggi giovanili, prima di trasformarsi in taverniere. Senza nemmeno accorgersene, l'oste sfiorò la cicatrice lasciatagli in viso da una scimitarra nella sua vita passata.
Il ragazzo, al contrario del suo compagno anziano con la cotta d'arme blu e oro degli Anastasi di Ravenna, indossava solamente una cotta di maglia con uno sdrucito farsetto rosso sbiadito, lo stemma imperiale cucito sul petto. “Un sergente”, intuì Domenico.
Il Silenzio continuò a saturare la stanza fin quando i due forestieri, dopo aver appeso i mantelli fradici al muro, presero posto al limitare di un tavolo ancora libero per metà. Pareva non volessero spaventare troppo agli altri avventori, già visibilmente scossi.
Domenico, dal suo posto accanto alle botti, si avvicinò ai nuovi avventori con un sospiro.
I due non parvero molto loquaci, tuttavia si presentarono secondo l'etichetta. Il nobile rispondeva al nome di messer Pietro Anastasi ed era l'investigatore incaricato dal Gonfaloniere di Ravenna, mentre il più giovane era Carlo Mainardi, Serragente dell'esercito dell'Imperatore stanziato in Ravenna. Domenico comprese subito che la cosa era seria. Un messo imperiale e un investigatore avrebbero presto trovato un colpevole. Il suo timore era che fosse realmente il colpevole...
Maria e Silvana servirono immediatamente i due ufficiali, i quali presero a guardarsi intorno cercando di capire con chi avessero a che fare. Dopo qualche attimo, Pietro si alzò in piedi schiarendosi rumorosamente la voce, ottenendo un nuovo, opprimente silenzio. Quando parlò, fu come udire la voce di Dio nel Giorno del Giudizio.
«In nome di Sua Maestà l'Imperatore e di Sua Eccellenza il Podestà di Ravenna, informiamo che il borgo di Traversara è attualmente inquisito per l'ignobile assassinio del Messo Imperiale Wilhelm Fugger, occorso tre giorni or sono. Pertanto, chiunque possegga informazioni utili, è pregato di presentarsi al mio cospetto, per dichiarare quanto conosce.» La voce dell'uomo, forte e salda, dovette instillare negli animi dei presenti una certa soggezione, poiché alcuni lasciarono frettolosamente la locanda, in fuga da una faccenda che, sapevano, sarebbe divenuta troppo insidiosa, attirando su di sé gli sguardi gelidi dei due nuovi venuti.
Qualche minuto dopo, al termine di un pasto concluso con calma affettata nonostante il proclama di messer Anastasi, uno dei frequentatori abituali dell'osteria, ben vestito, anche se chiaramente non ricco, lasciò il suo posto. Si alzò ripulendosi la bocca con la manica, camminando con passo sicuro e altero verso i due messi. Al fianco portava una spada al cui ingombro pareva essere abituato. Sarebbe potuto apparire un bell'uomo, se non fosse stato per l'orrenda butteratura sul viso.
«Sono Alcide Cavalieri, Bargello di Traversara. Servo vostro, miei signori.»
I due ufficiali imperiali ricambiarono il saluto, per nulla impressionati dalla presentazione inutilmente pomposa, poi i tre iniziarono cordialmente a discorrere tra un bicchiere di vino e l'altro, sempre sotto stretta osservazione di Domenico, che non intendeva perdersi nemmeno un battito di ciglia. La gentilezza dei messi del Gonfaloniere poteva tramutarsi in una condanna nel tempo di un Amen.
Il compagno del vecchio appariva ancora più temibile, nonostante fosse poco più che un giovanotto. Alto e ben piazzato, aveva un viso all'apparenza angelico, su cui si aprivano occhi che avevano visto ben più di quanto il Signore avrebbe dovuto mostrargli. Domenico riconobbe subito quello sguardo disilluso, lo aveva già visto durante i suoi viaggi giovanili, prima di trasformarsi in taverniere. Senza nemmeno accorgersene, l'oste sfiorò la cicatrice lasciatagli in viso da una scimitarra nella sua vita passata.
Il ragazzo, al contrario del suo compagno anziano con la cotta d'arme blu e oro degli Anastasi di Ravenna, indossava solamente una cotta di maglia con uno sdrucito farsetto rosso sbiadito, lo stemma imperiale cucito sul petto. “Un sergente”, intuì Domenico.
Il Silenzio continuò a saturare la stanza fin quando i due forestieri, dopo aver appeso i mantelli fradici al muro, presero posto al limitare di un tavolo ancora libero per metà. Pareva non volessero spaventare troppo agli altri avventori, già visibilmente scossi.
Domenico, dal suo posto accanto alle botti, si avvicinò ai nuovi avventori con un sospiro.
I due non parvero molto loquaci, tuttavia si presentarono secondo l'etichetta. Il nobile rispondeva al nome di messer Pietro Anastasi ed era l'investigatore incaricato dal Gonfaloniere di Ravenna, mentre il più giovane era Carlo Mainardi, Serragente dell'esercito dell'Imperatore stanziato in Ravenna. Domenico comprese subito che la cosa era seria. Un messo imperiale e un investigatore avrebbero presto trovato un colpevole. Il suo timore era che fosse realmente il colpevole...
Maria e Silvana servirono immediatamente i due ufficiali, i quali presero a guardarsi intorno cercando di capire con chi avessero a che fare. Dopo qualche attimo, Pietro si alzò in piedi schiarendosi rumorosamente la voce, ottenendo un nuovo, opprimente silenzio. Quando parlò, fu come udire la voce di Dio nel Giorno del Giudizio.
«In nome di Sua Maestà l'Imperatore e di Sua Eccellenza il Podestà di Ravenna, informiamo che il borgo di Traversara è attualmente inquisito per l'ignobile assassinio del Messo Imperiale Wilhelm Fugger, occorso tre giorni or sono. Pertanto, chiunque possegga informazioni utili, è pregato di presentarsi al mio cospetto, per dichiarare quanto conosce.» La voce dell'uomo, forte e salda, dovette instillare negli animi dei presenti una certa soggezione, poiché alcuni lasciarono frettolosamente la locanda, in fuga da una faccenda che, sapevano, sarebbe divenuta troppo insidiosa, attirando su di sé gli sguardi gelidi dei due nuovi venuti.
Qualche minuto dopo, al termine di un pasto concluso con calma affettata nonostante il proclama di messer Anastasi, uno dei frequentatori abituali dell'osteria, ben vestito, anche se chiaramente non ricco, lasciò il suo posto. Si alzò ripulendosi la bocca con la manica, camminando con passo sicuro e altero verso i due messi. Al fianco portava una spada al cui ingombro pareva essere abituato. Sarebbe potuto apparire un bell'uomo, se non fosse stato per l'orrenda butteratura sul viso.
«Sono Alcide Cavalieri, Bargello di Traversara. Servo vostro, miei signori.»
I due ufficiali imperiali ricambiarono il saluto, per nulla impressionati dalla presentazione inutilmente pomposa, poi i tre iniziarono cordialmente a discorrere tra un bicchiere di vino e l'altro, sempre sotto stretta osservazione di Domenico, che non intendeva perdersi nemmeno un battito di ciglia. La gentilezza dei messi del Gonfaloniere poteva tramutarsi in una condanna nel tempo di un Amen.

Il Bargello raccontò che erano stati i suoi a recuperare il corpo. La vittima sembrava essere stata squartata da una fiera: le viscere erano fuoriuscite e si sarebbe potuto accusare un lupo, se non fosse stato per i tagli sulle braccia, come se il messo avesse voluto difendersi da un attacco improvviso. Ovviamente Alcide aveva fatto rimuovere il corpo quasi immediatamente, ordinando che si portasse nella chiesa di Santa Maria in Scheta, poco distante dall'osteria. Nessuno, oltre a lui stesso, due guardie e gli ecclesiastici aveva visto nulla, ma i sussurri che facevano da contraltare alla loro conversazione rivelavano chiaramente che il dono della riservatezza non era poi molto diffuso da quelle parti.
Il Bargello precisò che il messo era giunto di mattina presto, mentre il suo corpo esanime era stato ritrovato dalla ronda ben dopo l'imbrunire, il che, aggiunse con sguardo ironico, avrebbe dovuto aiutarli a mantenere una certa discrezione.
Alcide riferì anche che dal corpo non era stato preso nulla, nemmeno il denaro.
Quei particolari parvero disorientare i due investigatori, tanto che messer Pietro dichiarò che, anche se a tutti gli effetti l'odioso crimine appariva come un omicidio passionale, compiuto forse per gelosia o per vendetta, non poteva esserlo, dato che il povero messer Wilhelm non era mai stato da queste parti prima, né trovava giustificazione la violenza operata sulla vittima, che di certo non poteva essersi macchiata di colpe tali da motivarla.
Perché tanta brutalità su un uomo dell'Imperatore, nel bel mezzo del borgo? Davvero aveva suscitato nel prossimo tanto odio in un giorno soltanto?
Eppure, difficilmente poteva trattarsi di una ritorsione politica. Cosa avrebbe potuto Traversara dopo che anche Ravenna era caduta così miseramente? Messer Pietro si grattò la nuca.
«I miei signori desiderano dare uno sguardo al corpo?» domandò il Bargello. Il tono era quello di chi stesse offrendo un'altra fetta di torta ai suoi ospiti.
Prima di congedarsi Alcide aggiunse che in tal caso la mattina seguente li avrebbe accompagnati in chiesa. Pietro e Carlo acconsentirono, ma il Serragente aggiunse che per l'indomani si organizzasse un raduno della popolazione nella chiesa stessa, affinché tutti potessero essere interrogati.
Sì, decise Domenico, strofinando una coppa di legno: quegli sciocchi avrebbero fatto meglio a restare seduti, invece di farsela sotto e andare a rinchiudersi in casa.
Il Bargello si accomiatò cordialmente con un cenno del capo, lasciando che i due messi potessero riposarsi dalle fatiche del viaggio.
Il giorno seguente, poco dopo l'alba, messer Pietro e Carlo si ritrovarono con Alcide, mentre le guardie cominciarono il rastrellamento della popolazione radunandola verso la chiesa. Il Serragente, ponendo fede che il tempo non peggiorasse di nuovo, allestì sul sagrato un tavolo da interrogazione.
Padre Giovanni, il parroco – un omone dal corpo di cavaliere più che di prete –, sopportò di buon grado tutto il trambusto, e accompagnò messer Pietro all'esame del corpo.
La cripta era fredda e buia, umida, e questo cominciava a danneggiare il corpo: nonostante fosse stato cosparso di rametti di rosmarino e semi di finocchio, appestava l’aria con gli effluvi tipici della morte. Quando Pietro lo esaminò lo trovò lindo e pulito, con appena una leggera smorfia di dolore impressa sul viso – in stridente contrasto con l'efferatezza dell'aggressione – e trovò i segni di piccole stoccate che dal palmo delle mani uscivano sul dorso. Colpi inferti con violenza da una lama sottile e corta, simile a quella di un temperino. Non un grande aiuto, in verità: tutti, bambini compresi, ne portavano uno per le faccende quotidiane.
Pietro decise di esaminare anche gli oggetti del defunto, così il parroco chiamò il suo canonico, frate Ugo. Era sulla trentina, il fisico gracile e una vistosa gobba sulla schiena; un francescano. Il saio aveva le maniche troppo lunghe, e il volto, lo sguardo elusivo, suscitò in Pietro una certa familiarità, forse il ricordo di qualcuno conosciuto altrove. Il monaco giunse con un involto contenente i vestiti strappati e intrisi di sangue di Wilhelm, la sua spada e la sua misericordia infoderate – parevano nuove –, una scarsella con pochi ravegnini piccioli e alcuni bolognini grossi. Il denaro non era molto, ma più di quello che una persona comune avrebbe racimolato in mezzo anno di duro lavoro. Esclusi il furto e il delitto politico, Pietro tornò a interrogarsi sull'ipotesi passionale. Che si trattasse davvero della cieca furia di un amante deluso? Quale fanciulla era riuscita a scatenare tanta brutalità in un uomo?
Quando riemerse dalla cripta, ancora perso nei suoi pensieri, trovò Carlo intento a incidere appunti con uno stilo di bronzo su un taccuino fatto di tavolette di cera. Anche se i villici non erano molti, nel breve tempo dell'esame sul cadavere Carlo non sarebbe stato capace di interrogarli tutti. Così si sorprese quando il suo compagno si affrettò a ragguagliarlo su quanto scoperto dalla voce di una testimone diretta, Domenica Bubani, figlia della lavandaia, una giovane timida e timorata di Dio.
Era emerso che la mattina in cui Wilhelm era giunto al borgo, mentre si recava in locanda, si era imbattuto nella giovane che, piangente, quasi gli era caduta addosso. Il messo, dopo averla accolta benevolmente tra le sue braccia, l'avrebbe rassicurata e interrogata sull'accaduto, venendo a conoscenza della mano pesante e dell’indole violenta del padre di lei. Persino la moglie di costui recava sul viso una deformità alla mascella dovuta alle percosse. Wilhelm, evidentemente dotato di un cuore onorevole, si sarebbe recato a parlare col padre della fanciulla, causando una colluttazione in cui l'uomo, Antonio Bubani, avrebbe avuto la peggio. Domenica per ringraziarlo del suo intervento gli avrebbe regalato un fazzoletto con una margherita ricamata.
Carlo, scusandosi per non essere riuscito a scoprire qualcosa riguardo alla morte di Wilhelm, indicò la fanciulla in questione. Era una ragazza nel fiore degli anni, dal viso delicato, bella come un mattino di primavera ma deturpata da una zoppia conseguenza delle vessazioni subite. I due messi rimasero per qualche istante a fissare Domenica, ancora ferma sul sagrato e affidata alle confortanti premure di frate Ugo, e si accorsero di non essere gli unici, anche se non tutti guardavano la ragazza con benevolenza.
Tra la folla scorsero l'astio del padre, già inebriato dai fumi dell'alcol di prima mattina, la frustrazione della madre, sul punto di scoppiare in lacrime, e l'espressione indecifrabile dell'oste, che pareva essersi fatto carico del ruolo di chi controlla il controllore.
All’improvviso, come in un'epifania, Pietro collegò quanto riferito da Carlo a quanto esaminato nella cripta, e parlò ai paesani: «Qualcuno, tra voi» tuonò «si è macchiato di un crimine orrendo, ed è così arrogante da portare addosso la prova di tale reato. Uno di voi» ripeté, lasciando vagare lo sguardo «ha recato offesa a Dio e all'Impero, e oggi sarà punito.»
Il cavaliere prese in disparte il Serragente e d'un tratto Domenico comprese che dovevano avere scoperto qualcosa, e occorreva stare attenti. Qualsiasi cosa la ragazza avesse raccontato doveva essere più che sufficiente, nonostante lui conoscesse dettagli che gli altri ignoravano. Cominciò a fissare la sua preda, colui che immaginava come il più probabile sospetto per quel crimine, pronto ad agire.
I due investigatori fecero rincasare i paesani, molti dei quali erano reticenti a tornare alle faccende di casa dopo quell'intrigante e macabro diversivo.
Domenico non se ne andò subito, ma si attardò sul sagrato, continuando a vigilare fino a quando i due stranieri gli si avvicinarono per domandargli del cavallo di Wilhelm. Pressato dalla loro autorità, perse di vista il suo colpevole e, a malincuore, li condusse alle stalle dell'osteria. Lungo la strada si interrogò se rivelare i suoi sospetti agli investigatori, ma si trattenne: un'ingiusta accusa sarebbe stata un peccato grave.
Accanto allo splendido roano di Wilhelm, si trovavano la sella e le sacche appartenute al messo, un po’ sbilanciate sul cavalletto che le sosteneva. I due le esaminarono a fondo e, dentro di esse, trovarono quello che stavano cercando. Il fazzoletto con la margherita ricamata apparve nelle mani di Carlo assieme a un dettaglio inatteso: la stoffa era macchiata di sangue. L'impronta di una mano insanguinata era chiaramente visibile. Solamente l'assassino poteva averla portata lì; Wilhelm non aveva ferite alle mani precedenti al suo decesso, e di certo non aveva riposto il fazzoletto dopo l'aggressione. La macchia inoltre era più densa in un punto, vicino al pollice, si era allargata nel punto in cui la stoffa era stata stretta: l'assassino doveva essersi ferito al momento dell'aggressione.
Domenico quindi comprese: il suo sospetto doveva aver portato lì il fazzoletto quando Pietro gli aveva chiesto delle stalle, in tutta fretta. Se era così, doveva trovarsi ancora nei paraggi. L'oste corse via dalla stalla, convinto di riuscire a catturare il colpevole, ignorando le grida dei messi stupefatti. La sua mossa indusse i due cavalieri a inseguirlo. Anche se rallentato dalla cotta il Serragente gli fu subito dappresso. Domenico corse a perdifiato: se avesse fallito, Dio avrebbe dovuto avere cura della sua famiglia.
Carlo non sapeva spiegare la reazione dell'oste, non gli era parso un cattivo uomo, ma un innocente non fugge. Doveva catturarlo. Lo vide scartare improvvisamente a sinistra verso una zona innevata che separava la chiesa dall'osteria. Solo allora si accorse dell'altra figura scura che correva con incedere agile, seppur scomposto, diretta verso la chiesa, piegata in avanti come fosse protesa verso una meta ormai vicina. L'oste accelerò, sorprendendo Carlo col suo vigore, e si gettò come una furia sulla sagoma gibbosa del fuggitivo, buttandolo in mezzo alla neve. I due si accapigliarono, poi lo sconosciuto lanciò un urlo quasi disumano, e un guizzo argenteo apparve tra i due. Carlo arrivò nel momento stesso in cui vide il metallo macchiarsi di sangue, e l'oste scagliare un violento pugno al volto della figura distesa sotto di lui, facendole perdere i sensi. Carlo spostò violentemente Domenico da sopra l'uomo, ormai incosciente, mentre Pietro, affaticato, li raggiunse e si sincerò delle condizioni dell'oste, a malapena scalfito da un temperino da amanuense.
Il vecchio messo, ripreso fiato, constatò che la figura a terra altri non era che fratello Ugo, la cui mano sinistra, ancora stretta attorno al temperino, era fasciata per una ferita precedente.
Il Bargello precisò che il messo era giunto di mattina presto, mentre il suo corpo esanime era stato ritrovato dalla ronda ben dopo l'imbrunire, il che, aggiunse con sguardo ironico, avrebbe dovuto aiutarli a mantenere una certa discrezione.
Alcide riferì anche che dal corpo non era stato preso nulla, nemmeno il denaro.
Quei particolari parvero disorientare i due investigatori, tanto che messer Pietro dichiarò che, anche se a tutti gli effetti l'odioso crimine appariva come un omicidio passionale, compiuto forse per gelosia o per vendetta, non poteva esserlo, dato che il povero messer Wilhelm non era mai stato da queste parti prima, né trovava giustificazione la violenza operata sulla vittima, che di certo non poteva essersi macchiata di colpe tali da motivarla.
Perché tanta brutalità su un uomo dell'Imperatore, nel bel mezzo del borgo? Davvero aveva suscitato nel prossimo tanto odio in un giorno soltanto?
Eppure, difficilmente poteva trattarsi di una ritorsione politica. Cosa avrebbe potuto Traversara dopo che anche Ravenna era caduta così miseramente? Messer Pietro si grattò la nuca.
«I miei signori desiderano dare uno sguardo al corpo?» domandò il Bargello. Il tono era quello di chi stesse offrendo un'altra fetta di torta ai suoi ospiti.
Prima di congedarsi Alcide aggiunse che in tal caso la mattina seguente li avrebbe accompagnati in chiesa. Pietro e Carlo acconsentirono, ma il Serragente aggiunse che per l'indomani si organizzasse un raduno della popolazione nella chiesa stessa, affinché tutti potessero essere interrogati.
Sì, decise Domenico, strofinando una coppa di legno: quegli sciocchi avrebbero fatto meglio a restare seduti, invece di farsela sotto e andare a rinchiudersi in casa.
Il Bargello si accomiatò cordialmente con un cenno del capo, lasciando che i due messi potessero riposarsi dalle fatiche del viaggio.
Padre Giovanni, il parroco – un omone dal corpo di cavaliere più che di prete –, sopportò di buon grado tutto il trambusto, e accompagnò messer Pietro all'esame del corpo.
La cripta era fredda e buia, umida, e questo cominciava a danneggiare il corpo: nonostante fosse stato cosparso di rametti di rosmarino e semi di finocchio, appestava l’aria con gli effluvi tipici della morte. Quando Pietro lo esaminò lo trovò lindo e pulito, con appena una leggera smorfia di dolore impressa sul viso – in stridente contrasto con l'efferatezza dell'aggressione – e trovò i segni di piccole stoccate che dal palmo delle mani uscivano sul dorso. Colpi inferti con violenza da una lama sottile e corta, simile a quella di un temperino. Non un grande aiuto, in verità: tutti, bambini compresi, ne portavano uno per le faccende quotidiane.
Pietro decise di esaminare anche gli oggetti del defunto, così il parroco chiamò il suo canonico, frate Ugo. Era sulla trentina, il fisico gracile e una vistosa gobba sulla schiena; un francescano. Il saio aveva le maniche troppo lunghe, e il volto, lo sguardo elusivo, suscitò in Pietro una certa familiarità, forse il ricordo di qualcuno conosciuto altrove. Il monaco giunse con un involto contenente i vestiti strappati e intrisi di sangue di Wilhelm, la sua spada e la sua misericordia infoderate – parevano nuove –, una scarsella con pochi ravegnini piccioli e alcuni bolognini grossi. Il denaro non era molto, ma più di quello che una persona comune avrebbe racimolato in mezzo anno di duro lavoro. Esclusi il furto e il delitto politico, Pietro tornò a interrogarsi sull'ipotesi passionale. Che si trattasse davvero della cieca furia di un amante deluso? Quale fanciulla era riuscita a scatenare tanta brutalità in un uomo?
Quando riemerse dalla cripta, ancora perso nei suoi pensieri, trovò Carlo intento a incidere appunti con uno stilo di bronzo su un taccuino fatto di tavolette di cera. Anche se i villici non erano molti, nel breve tempo dell'esame sul cadavere Carlo non sarebbe stato capace di interrogarli tutti. Così si sorprese quando il suo compagno si affrettò a ragguagliarlo su quanto scoperto dalla voce di una testimone diretta, Domenica Bubani, figlia della lavandaia, una giovane timida e timorata di Dio.
Era emerso che la mattina in cui Wilhelm era giunto al borgo, mentre si recava in locanda, si era imbattuto nella giovane che, piangente, quasi gli era caduta addosso. Il messo, dopo averla accolta benevolmente tra le sue braccia, l'avrebbe rassicurata e interrogata sull'accaduto, venendo a conoscenza della mano pesante e dell’indole violenta del padre di lei. Persino la moglie di costui recava sul viso una deformità alla mascella dovuta alle percosse. Wilhelm, evidentemente dotato di un cuore onorevole, si sarebbe recato a parlare col padre della fanciulla, causando una colluttazione in cui l'uomo, Antonio Bubani, avrebbe avuto la peggio. Domenica per ringraziarlo del suo intervento gli avrebbe regalato un fazzoletto con una margherita ricamata.
Carlo, scusandosi per non essere riuscito a scoprire qualcosa riguardo alla morte di Wilhelm, indicò la fanciulla in questione. Era una ragazza nel fiore degli anni, dal viso delicato, bella come un mattino di primavera ma deturpata da una zoppia conseguenza delle vessazioni subite. I due messi rimasero per qualche istante a fissare Domenica, ancora ferma sul sagrato e affidata alle confortanti premure di frate Ugo, e si accorsero di non essere gli unici, anche se non tutti guardavano la ragazza con benevolenza.
Tra la folla scorsero l'astio del padre, già inebriato dai fumi dell'alcol di prima mattina, la frustrazione della madre, sul punto di scoppiare in lacrime, e l'espressione indecifrabile dell'oste, che pareva essersi fatto carico del ruolo di chi controlla il controllore.
All’improvviso, come in un'epifania, Pietro collegò quanto riferito da Carlo a quanto esaminato nella cripta, e parlò ai paesani: «Qualcuno, tra voi» tuonò «si è macchiato di un crimine orrendo, ed è così arrogante da portare addosso la prova di tale reato. Uno di voi» ripeté, lasciando vagare lo sguardo «ha recato offesa a Dio e all'Impero, e oggi sarà punito.»

Il cavaliere prese in disparte il Serragente e d'un tratto Domenico comprese che dovevano avere scoperto qualcosa, e occorreva stare attenti. Qualsiasi cosa la ragazza avesse raccontato doveva essere più che sufficiente, nonostante lui conoscesse dettagli che gli altri ignoravano. Cominciò a fissare la sua preda, colui che immaginava come il più probabile sospetto per quel crimine, pronto ad agire.
I due investigatori fecero rincasare i paesani, molti dei quali erano reticenti a tornare alle faccende di casa dopo quell'intrigante e macabro diversivo.
Domenico non se ne andò subito, ma si attardò sul sagrato, continuando a vigilare fino a quando i due stranieri gli si avvicinarono per domandargli del cavallo di Wilhelm. Pressato dalla loro autorità, perse di vista il suo colpevole e, a malincuore, li condusse alle stalle dell'osteria. Lungo la strada si interrogò se rivelare i suoi sospetti agli investigatori, ma si trattenne: un'ingiusta accusa sarebbe stata un peccato grave.
Accanto allo splendido roano di Wilhelm, si trovavano la sella e le sacche appartenute al messo, un po’ sbilanciate sul cavalletto che le sosteneva. I due le esaminarono a fondo e, dentro di esse, trovarono quello che stavano cercando. Il fazzoletto con la margherita ricamata apparve nelle mani di Carlo assieme a un dettaglio inatteso: la stoffa era macchiata di sangue. L'impronta di una mano insanguinata era chiaramente visibile. Solamente l'assassino poteva averla portata lì; Wilhelm non aveva ferite alle mani precedenti al suo decesso, e di certo non aveva riposto il fazzoletto dopo l'aggressione. La macchia inoltre era più densa in un punto, vicino al pollice, si era allargata nel punto in cui la stoffa era stata stretta: l'assassino doveva essersi ferito al momento dell'aggressione.
Domenico quindi comprese: il suo sospetto doveva aver portato lì il fazzoletto quando Pietro gli aveva chiesto delle stalle, in tutta fretta. Se era così, doveva trovarsi ancora nei paraggi. L'oste corse via dalla stalla, convinto di riuscire a catturare il colpevole, ignorando le grida dei messi stupefatti. La sua mossa indusse i due cavalieri a inseguirlo. Anche se rallentato dalla cotta il Serragente gli fu subito dappresso. Domenico corse a perdifiato: se avesse fallito, Dio avrebbe dovuto avere cura della sua famiglia.
Carlo non sapeva spiegare la reazione dell'oste, non gli era parso un cattivo uomo, ma un innocente non fugge. Doveva catturarlo. Lo vide scartare improvvisamente a sinistra verso una zona innevata che separava la chiesa dall'osteria. Solo allora si accorse dell'altra figura scura che correva con incedere agile, seppur scomposto, diretta verso la chiesa, piegata in avanti come fosse protesa verso una meta ormai vicina. L'oste accelerò, sorprendendo Carlo col suo vigore, e si gettò come una furia sulla sagoma gibbosa del fuggitivo, buttandolo in mezzo alla neve. I due si accapigliarono, poi lo sconosciuto lanciò un urlo quasi disumano, e un guizzo argenteo apparve tra i due. Carlo arrivò nel momento stesso in cui vide il metallo macchiarsi di sangue, e l'oste scagliare un violento pugno al volto della figura distesa sotto di lui, facendole perdere i sensi. Carlo spostò violentemente Domenico da sopra l'uomo, ormai incosciente, mentre Pietro, affaticato, li raggiunse e si sincerò delle condizioni dell'oste, a malapena scalfito da un temperino da amanuense.
Il vecchio messo, ripreso fiato, constatò che la figura a terra altri non era che fratello Ugo, la cui mano sinistra, ancora stretta attorno al temperino, era fasciata per una ferita precedente.
Fratello Ugo fu arrestato, Domenico contemporaneamente biasimato e ringraziato per il suo ardire. Gli investigatori condussero il frate francescano in chiesa, dove ascoltarono la sua confessione.
Sotto pressione rivelò la sua illecita brama d'amore per Domenica, per quella pia fanciulla che passava tanto tempo in sua compagnia e lo aveva costretto a gravi penitenze nel tentativo di resistere alle tentazioni della carne. Poi aveva visto lo sguardo di Domenica per il cavaliere alemanno. Lui avrebbe dovuto soccorrerla, un servo del Signore, il suo confessore, non uno straniero con l'unico merito di essersi trovato sulla via di lei nel momento del bisogno! Aveva visto il bacio rubato da quel barbaro prima che lei gli regalasse un pegno d'amore fatto di lino, un lino che lui stesso le aveva regalato mesi addietro!
L'ira lo aveva accecato. Aveva atteso che il cavaliere facesse ritorno alla stalla dell'osteria, a lungo, troppo a lungo. Le immagini che la sua mente inventò per giustificare quel ritardo moltiplicarono la sua furia. Quando vide il germanico congedarsi da un abbraccio della fanciulla, impunemente, in pubblico – in presenza della madre stessa di Domenica! – attese che le due donne sparissero alla vista, e senza che Wilhelm se ne avvedesse, lo aggredì gettandolo a terra, colpendo con tutta la forza che aveva in sé, straziandone il corpo, cercando dentro di esso qualcosa che giustificasse l'amore di Domenica per lui – doveva esserci! –, ma per quanto frugasse, non trovò altro che viscere e sangue peccaminoso. Si consolò riprendendo il fazzoletto, il suo fazzoletto.
Dopo il resoconto, Pietro ricordò dove avesse visto quel frate, all'epoca rispondente al nome di Ugo Onesti, un depravato violento frustrato dalla propria deformità, un lascivo capace di compromettere la virtù della sua stessa sorella. Condannato era riuscito a fuggire e a far perdere le sue tracce. Punendolo per le sue colpe, ora l’avrebbero risarcita.
Pietro era affranto per la morte di Wilhelm, ma poi comprese la ragione per cui Dio li aveva voluti a Traversara: giustizia. Giustizia per due anime indifese.
Sotto pressione rivelò la sua illecita brama d'amore per Domenica, per quella pia fanciulla che passava tanto tempo in sua compagnia e lo aveva costretto a gravi penitenze nel tentativo di resistere alle tentazioni della carne. Poi aveva visto lo sguardo di Domenica per il cavaliere alemanno. Lui avrebbe dovuto soccorrerla, un servo del Signore, il suo confessore, non uno straniero con l'unico merito di essersi trovato sulla via di lei nel momento del bisogno! Aveva visto il bacio rubato da quel barbaro prima che lei gli regalasse un pegno d'amore fatto di lino, un lino che lui stesso le aveva regalato mesi addietro!
L'ira lo aveva accecato. Aveva atteso che il cavaliere facesse ritorno alla stalla dell'osteria, a lungo, troppo a lungo. Le immagini che la sua mente inventò per giustificare quel ritardo moltiplicarono la sua furia. Quando vide il germanico congedarsi da un abbraccio della fanciulla, impunemente, in pubblico – in presenza della madre stessa di Domenica! – attese che le due donne sparissero alla vista, e senza che Wilhelm se ne avvedesse, lo aggredì gettandolo a terra, colpendo con tutta la forza che aveva in sé, straziandone il corpo, cercando dentro di esso qualcosa che giustificasse l'amore di Domenica per lui – doveva esserci! –, ma per quanto frugasse, non trovò altro che viscere e sangue peccaminoso. Si consolò riprendendo il fazzoletto, il suo fazzoletto.
Dopo il resoconto, Pietro ricordò dove avesse visto quel frate, all'epoca rispondente al nome di Ugo Onesti, un depravato violento frustrato dalla propria deformità, un lascivo capace di compromettere la virtù della sua stessa sorella. Condannato era riuscito a fuggire e a far perdere le sue tracce. Punendolo per le sue colpe, ora l’avrebbero risarcita.
Pietro era affranto per la morte di Wilhelm, ma poi comprese la ragione per cui Dio li aveva voluti a Traversara: giustizia. Giustizia per due anime indifese.