venerdì 29 dicembre 2017

Canti del solstizio d'Inverno


Bagaglio migliore
non si portano gli uomini in viaggio
di un gran buon senso.
Della ricchezza, più utile
si rivela in un paese sconosciuto:
tale è la salvezza del disperato.
--
Hàvamàl, Il Discorso di Hàr


Accadeva da diverso tempo che i villani di Bolungavik prestassero poca attenzione agli dei.
Li assorbivano le attività dei pascoli, della pesca e dell'artigianato, tanto da far loro dimenticare di onorare Thor e Artia. Si resero conto troppo tardi del loro peccato, spendendosi in preghiere e piagnistei.
I superni erano adirati, e la stagione sarebbe stata particolarmente dura: il ghiacciaio era arrivato al limite del paese, e non accadeva da una generazione intera. Per un uomo a piedi il passo di Ùlfur era ancora sicuro, ma, di fatto, Bolungavik era rimasto in isolamento.
Il bestiame veniva tenuto in casa – sopravviveva a stento –, e la notte le famiglie si stringevano tutte nel badstofa per scaldarsi col calore dei corpi, ma le scorte di legname si sarebbero esaurite con almeno un mese d'anticipo, nonostante gli sforzi.
Nella casa di Beod, il figlio maggiore Sigur perse la pazienza: «Occorre cercare aiuto! Siamo quasi privi di fuoco, come faremo senza?»
Suo fratello minore, Bjorn, gli parlò con pacatezza: «Dobbiamo pregare gli dei, aver fede. Non lasceranno morire i loro figli.»
«È questa la tua idea? Questi i tuoi consigli? Gli dei ci stanno punendo, oppure ci hanno abbandonato!»
«Nessuno conosce il loro volere, fratello. Non abbiamo controllo sul fato.»
«Voi restate qui a pregare» disse Sigur, colmo di frustrazione «me ne vado, così ci sarà più legna per voi. E mentre vi scaldate, cercherò una soluzione.»
Così, il 9 di gennaio, nel giorno di Raud il Forte, che aveva pagato con la morte il bene della sua gente, Sigur decise di partire alla ricerca di legname, coraggiosamente.

 
Bjorn rimase a casa, guardò il fratello allontanarsi. Stavano sempre insieme, ma erano talmente diversi! Rivolse un'invocazione al cielo, perché il senno lo colmasse di nuovo, ma non accadde nulla.
Sigur lo aveva accudito da sempre, da quando dormiva nella culla. Cosa avrebbe fatto se non fosse tornato?
Col cuore gonfio di timori si lanciò fuori, ma Sigur era svanito.
Le grida dei genitori si persero nell'aria. Ormai era deciso: avrebbe cercato di riportare a casa il suo sangue, il suo amico.
Sigur e Bjorn erano fratelli cacciatori, nati e cresciuti nel villaggio, da poco divenuti adulti. Avevano ignorato le suppliche delle loro famiglie, gli ammonimenti dei vecchi e persino gli insulti, e si erano allontanati coperti di pelli lungo il passo di Ùlfur, portando con sé la speranza di poter salvare Bolungavik da infausti destini, unico loro scopo. Prima era andato Sigur, e Bjorn poco dopo.
Ben presto si scatenò su tutto una forte tempesta, la neve che turbinava e impediva di vedere a tre passi nella foresta. Separati senza sapere dell'altro, si coprirono coi cappucci di pelliccia, ma prima di metà mattina, disperati, dovettero riparare sotto le rocce.
Sigur piangeva la mancanza dei suoi cari, che temeva di non rivedere. Bjorn cercava il fratello, pieno di rimorso per averlo lasciato andare.
Il valico avrebbe richiesto tre giorni interi, così Sigur e Bjorn ripresero il proprio cammino appena possibile, perché sapevano quanto ogni istante perso potesse significare.


 Durante il terzo giorno, quando le montagne stavano per aprirsi di fronte ai due cacciatori, il gigante Thun mandò una valanga per tagliarli fuori, impedendo loro la strada del ritorno.
Sigur e Bjorn erano soli, e non c'era verso di tornare indietro, se non aggirando l'intera catena dei Fornfjöll in un lungo giro in tondo.
I due fratelli decisero di non perdersi d'animo, affrontando un problema alla volta: Sigur si disse che prima di tornare a Bolungavik doveva trovare il legno. Bjorn, osservando la furia degli elementi pianse, ma se anche avesse trovato soltanto un corpo, per Thor, doveva riportarne a casa un pegno.
Così proseguirono entrambi lungo passaggi scivolosi, discendendo dal fianco del monte.
Bjorn si diresse a ovest, Sigur a oriente.
Sigur costeggiò la grande roccia e il suo sentiero prese a salire, svanendo tra le chiome degli alberi, nell'abbacinante niente. Non si voltò mai.
Bjorn guardò a lungo indietro, prima di incamminarsi, domandosi se avrebbe rivisto casa e trovato suo fratello, prima o poi.
Sigur si fece strada nella neve per due giorni interi, maledicendo il cielo, sfidando Odino, riparando sotto le rocce e il tronco di un vecchio pino; la notte sopportò il gelo e i sogni più neri.
Quando gli erano rimasti solo un corno di sidro e nemmeno due tozzi di pane interi, scorse nel bianco le forme di case lontane. Non sarebbe morto! Aveva avuto ragione nel creasi il proprio destino. Dal comignolo della fattoria saliva una sottile colonna di fumo, e il cacciatore corse per arrivarle vicino.
Accanto alla casa sorgeva un grande capanno privo di porta, senza camino. Il tetto era spiovente, e al suo interno centinaia di tronchi stagionati erano stipati e ordinati in cataste promettenti.

 
Sigur bussò con veemenza e gli vennero offerte ospitalità e vino caldo speziato, come d'usanza. Cenarono in una piccola stanza, e il ragazzo, lieto della sosta, raccontò al contadino e alla moglie del suo viaggio e del bisogno di Bolungavik, suo minuscolo villaggio.
Il contadino si consultò con sua moglie, poi avanzò una proposta: «Un orso funesta le nostre terre e ci impedisce di pascolare il bestiame. Senza le pecore moriremo di stenti e di freddo. Trovalo durante il letargo di questi giorni, uccidilo, e avrai il legname.»
Sigur accettò con vigorose strette di mani. Era lieto di poter offrire in cambio qualcosa, e uccidere un orso gli avrebbe assicurato lustro tra i suoi compaesani, forse persino procurato una sposa.
«Mangia ora, e dopo riposa. E per la tua impresa, impugna questa.» Il contadino e sua moglie lo rifocillarono, poi la donna gli porse una robusta lancia che era stata del suo primo figlio, morto nel tentativo di uccidere la bestia.
Sigur seguì le indicazioni della coppia, e si addentrò nella foresta.
Camminò per mezza giornata e giunse di fronte una parete verticale, una grotta con l'entrata coperta da una piccola slavina.
Si fece largo con la forza del braccio, scavando con le mani nella neve, finché non ricavò un passaggio. Dall'altra parte si apriva una caverna.
Sigur ascoltò il silenzio, prestò attenzione. Non c'era molta luce, e lasciò che gli occhi, abbagliati dalla neve, si abituassero alla sua diminuzione.
Nella grotta scorse un corpo raggomitolato. Il grande animale riposava a pochi passi da lui, addormentato.
Il cacciatore sollevò la lancia e avanzò con passo di velluto. Sapeva come muoversi di fronte a una preda: non avrebbe avuto altre possibilità. Quando fu a meno di due passi si preparò a scagliare, ma qualcuno prese a gridare, e gli si gettò addosso.
«No!» urlò Bjorn, sbucato da sotto la mole dell'orso.
Sigur se lo scrollò di dosso e si apprestò di nuovo a colpire. La lancia fece resistenza, e lui la strattonò. Bjorn gridò di dolore, il sangue macchiò i suoi vestiti. L'orso, svegliato dal trambusto, osservava la scena, senza capire.
Sigur guardò con orrore la punta di ferro macchiata di rosso. «Bjorn! Spostati!»
Bjorn, privo di forze, cadde in ginocchio, mormorando: «Non posso».
«Solo uccidendo l'orso avremo il legname. È un assassino e un ladro di bestiame!»
«Sono stato travolto da una bufera. L'orso mi ha protetto e riscaldato, mi ha sfamato col suo latte e perciò mi sono salvato.»
«Dobbiamo andare, fratello, sei ferito. La sua vita per la tua e quella della tua gente.»
«È un pesante fardello, non voglio condannarli, ma nemmeno essere ricordato per la morte di un animale innocente.»
Il grande orso sbucò da dietro Bjorn, placidamente, calpestando una pozza di sangue, mettendosi nel mezzo.
Sigur lo guardò negli occhi, e qualcosa, nella sua determinazione, si incrinò. Abbassò la lancia e disse: «Non è questo l'orso che cerco, la paura mi ha reso pazzo. Il suo sguardo è puro, e non c'è animosità in lui. Per questa caccia ho rinnegato gli dei e colpito mio fratello. Mi ero sbagliato.»
Per tutta risposta, l'animale emise uno sbuffo, una nuvoletta d'aria fredda e fiato condensato.
Sigur scorse nello sguardo dell'orso le pene dei suoi cari, la sofferenza del villaggio. Era solo una visione, ma gli ricordò l'urgenza. Prese un lungo respiro, poi proseguì: «Se l'uccido il contadino ci darà comunque la legna. E un predatore in meno minaccerà gli armenti.»
«Non è questo che nostro padre ci ha trasmesso, Sigur. Il braccio stringe la lancia, ma è il cuore che la muove. Porteresti con te la colpa, i tormenti.»


Sigur esitò.
Prima che qualcuno parlasse di nuovo, l'orso si sollevò su due zampe. Era tanto grande da sfiorare col muso il soffitto dell'ambiente. Poi il suo corpo prese a tremare, scosso dai cambiamenti.
Rimpicciolendosi perse il pelo e assunse le sembianze di una bellissima donna. Aveva occhi verdi e lunghi capelli castani e setosi. Dalla grotta scomparve la paura.
«Io sono Artia, Signora della natura, e vi darò il mio aiuto» disse la donna. La sua voce era una brezza leggera sulla riva di un lago, la melodia di un liuto.
«Non ho nulla da offrire, sto morendo, e ho già bevuto il tuo latte!» spiegò Bjorn disperato, inginocchiandosi di fronte alla dea, tremante.
«Hai mostrato fiducia in un animale selvaggio e pietà per gli innocenti, questo è sufficiente.»
«Stavo per toglierti la vita! Ho colpito la mia famiglia!» le gridò Sigur, affranto.
«Cercavi di aiutare. Tu hai guardato nei miei occhi, io nel tuo cuore. La tua mano tremava già da prima: non avresti colpito, solo pianto.»
Guardando la dea, Bjorn esalò l'ultimo respiro, e il suo spirito volò sul ponte bifrǫst, tenendo verso la casa dei padri la rotta.
Artia sollevò il suo corpo tra le braccia e uscì dalla grotta, e ovunque posasse il piede la neve cedeva il passo ai fiori.
La Signora dei boschi condusse Sigur di fuori, dai contadini, e promise che non sarebbe più successo niente; nessun orso avrebbe turbato la quiete dei loro giardini, perché i due fratelli le avevano restituito fiducia nella gente.
Promise di intercedere con Odino, padre degli dei, perché l'inverno si mostrasse clemente.
Adagiò Bjorn su una piccola collina, e un grande albero sorse dalle sue spoglie. Aveva un largo tronco e forti rami. Era una pianta viva, ma non aveva foglie.
Artia lo accarezzò. «Questa è la fonte del legno che vi concedo. Vi terrà caldi e al riparo dal gelo. Creerà nuovi rami e sarà un protettore.»
Sigur ammirò il prodigio e salutò il fratello, promettendo di imparare da chi gli era stato migliore.
Artia creò una slitta di tronchi con un canto leggero, e per permettere a Sigur di trasportare il legname a Bolungavik, fece sorgere un lungo sentiero.
Era il 14 di gennaio, giorno di Thorrablot, con il sole che cominciava già a risplendere più a lungo, quando Sigur, salutata la dea, riportò in paese la vita.
Da allora nessun orso fu più ucciso a ovest dei monti, e delle greggi nessuna mattanza.
Sulla collina di Hæð Fórnar si staglia ancora una quercia antica, e al valico di Ùlfur fu cambiato il nome. Divenne Ferð Von, Passo della Speranza.

 

martedì 26 dicembre 2017

Bright

- Originale Netflix

[no spoiler]


In queste vacanze ho deciso di recuperare tutta la nerditudine di cui mi sono dovuto privare negli ultimi mesi, per via del lavoro. Così ho dato fondo ai gighi mensili e ho guardato diverse cosette, tra cui questo Bright, il cui trailer messo in bella mostra sul mio profilo Netflix mi aveva da subito incuriosito.

Innanzitutto mi ha colpito la qualità della produzione. Sempre più spesso i prodotti a marchio Netflix si distinguono per l'alto impatto visivo, assolutamente in linea con quello dei film che vengono distribuiti nei cinema (e anzi, rispetto alle ultime cose che ho visto, decisamente superiore. Capito "Star Wars: The Last movie i'm going to pay for"?).

Secondo, ho avuto immediatamente l'impressione che potesse essere il film in cui Will Smith recuperava la verve perduta. Non un super macho con manie di protagonismo come è stato, ad esempio, per i deludenti Suicide Squad e Men in Black III, ma un personaggio "normale", vicino alla cinquantina, umano e concreto.


Terzo, il trailer mi ha proposto un'ambientazione in cui orchi, elfi e umani popolano il mondo contemporaneo con una formula che - pur non essendo innovativa - veniva proposta secondo una prospettiva che mi ricordava molto District 9. Tutto è infatti assolutamente realistico; non si indulge in super effetti speciali, ma si punta sugli aspetti relazionali di una società multirazziale.

In questo mondo alternativo scopriamo gang di orchi che lottano con i portoricani per il dominio del quartiere, discriminati e ghettizzati in quanto colpevoli di essere passati al Male in un tempo ormai remoto, che però continua a fomentare l'odio razziale. La metafora sulle odierne controversie religiose e sociali non è nemmeno velata, ma Bright non è un film pretenzioso. Non è un finto fantasy con velleità intellettuali di analisi e critica alla società contemporanea. Bright è un vero fantasy che sfrutta il nostro mondo per costruire una realtà alternativa solida e convincente.


La vicenda è ambientata in una Los Angeles dominata da una casta di ricchi e spocchiosi elfi, biondi, bellissimi e diafani ma più intolleranti di Calderoli e Borghezio messi assieme. Il nucleo più numeroso della popolazione è costituito dagli umani, e alla base della piramide sociale troviamo gli orchi, che sono i paria e gli esclusi. La loro colpa? Aver scelto di schierarsi con il Signore Oscuro duemila anni prima. Da allora molte cose sono cambiate, ma non l'odio delle altre razze per loro.

Il look delle creature è molto curato, e, anche in questo caso, non è mai eccessivo. Gli elfi, coi tratti spigolosi, gli zigomi alti e gli occhi luminosi, ricordano molto quelli di Warcraft (eccezion fatta per le le orecchie telescopiche). Gli orchi hanno le tipiche zanne sporgenti e una pigmentazione rosa-blu che ne rappresenta il tratto caratteristico e originale. Altre creature fanno apparizioni fugaci: tra loro le odiose fatine, considerate insetti fastidiosi, una donna dall'aspetto umano ma dotata di palpebre nittitanti come il cefalopoide che Will Smith insegue in Man in Black, e infine i nani, citati, ma mai mostrati.


Protagonista delle vicende narrate è Ward, poliziotto a cui hanno appioppato un compagno orco, Jakoby, cosa che, nonostante il carattere tranquillo del collega, gli creerà inimicizie e problemi a non finire.
Sullo sfondo della loro travagliata collaborazione si muovono gruppi di potere, sette, gang e si profila il ritorno del Signore Oscuro.

Bright è nel complesso molto godibile, un mix ben riuscito di action movie, poliziesco e fantasy.
Ha qualcosa del scify sociale di District 9 e del fantasy moderno e leggero di Blade, sequenze spettacolari e diverse battute molto divertenti, inoltre, soprattutto nella seconda parte, con l'ingresso in scena della malvagissima elfa Noomi Rapace (Uomini che odiano le donne, Prometheus), introduce un certo grado di cattiveria e persino qualche scena turpe.


Insomma, Bright mi è piaciuto. Forse non entrerà nell'Olimpo dei film più spettacolari di sempre, ma mi auguro che la scelta di una produzione Netflix possa premiarlo, e magari chissà, favorirne un seguito. Io me lo guarderei.



martedì 19 dicembre 2017

Il sergente Barolo e la nascita degli eroi


by The Garderner87 & T.J. Valery

"Stasera ci vediamo?"
"Sìsì, ci sono."
Arrivo, mi siedo al tavolo, e vedo che è tutto imbandito per giocare di ruolo: dadi spaiati, matite cortissime, frammenti di gomme talmente luride che si potrebbero usare in sostituzione dei pennarelli indelebili.

"Maaa... iniziamo una campagna?"
"Non lo avevi capito?"
Così il master tira fuori dei preventivi per condizionatori dicendo: “pescane uno”.
Il preventivo rivela, nel lato posteriore, una scheda molto essenziale scritta a mano, con sopra un nome:
Rubeo Tanicus.
 
A questo punto il master sfodera dei quadratini di carta e ci fa pescare pure tra quelli.
Dietro il mio c'è scritto “Cartografo”.
Gli altri due giocatori estraggono “Guerriero” e “Luogotenente”.
Nella mia mente inizia a formarsi l'immagine di un uomo alto e allampanato con indosso una tunica rossa e le braccia e la cintura ingombri di rotoli di pergamena, inchiostri e strumenti d'ottone.
 
"Siete soldati in marcia verso l'assedio della capitale nemica: domani all'alba dovrete attraversare il fiume Wyecliffe su un ponte di barche insieme al resto dell'esercito".
L'immagine si sfoca leggermente e il cartografo assume un aspetto più marziale: l’abito è più sobrio e coperto dalla polvere sollevata dalla marcia di migliaia di piedi. Le pergamene non sono più volanti, ma inserite in cilindri di cuoio ben ordinati e impermeabili.
 
"Tirate le statistiche! 1d8+8!"
Forza: 12; Costituzione: 10; Destrezza: 9; Intelligenza: 16; Saggezza: 12; Carisma: 9; Manualità: 16
In un mondo in cui le statistiche vanno da 9 a 16 si direbbe che siamo all'estremo superiore dello spettro dei disturbi autistici, con una mobilità che al confronto Dr. House nella prima stagione è il ninja Rikimaru.
A questo punto Rubeo è un uomo non molto alto, grassoccio, dagli occhi piccoli e con una gamba rigida che lo costringe a zoppicare in modo vistoso; indossa ha una semplice armatura di cuoio e usa la sua lunga picca anche per aiutarsi durante il cammino.
Sulla scheda inizio a disegnare la faccia di un uomo che toglie il fiato.
Dallo spavento.


"Luogotenente, hai ricevuto gli ordini del generale."
E il mio amico: "Chiamo il mio secondo… Ho un secondo?"
Il master sbircia le schede e guarda chi ha l’intelligenza più alta (io).
"Si, il tuo secondo è anche il cartografo della vostra unità."
Il comandante è bello bello in modo assurdo (Carisma: 16) ma è anche avventato e imprudente (Saggezza: 9).

Memore della Saga di Malazan (un ufficiale deve stare fuori dai piedi e ascoltare il suo sergente…) il mio personaggio diventa immediatamente un ibrido tra Spugna e un nostromo: brutto, ma affidabile e competente, l'uomo che si occupa di tutti i dettagli che tengono la squadra a galla senza prendersi un singolo raggio di gloria sulla brutta faccia.
"Si, chiamo... Bralus? Brutus?"
"Rubeus, ma visto che ho sempre il naso rosso sai bene che i soldati mi chiamano Barolo".
Ed ecco qui la nascita del sergente Barolo.

Da un descrittore e qualche numero in poco tempo è emerso un personaggio, forse non memorabile, ma con abbastanza spessore da fare la propria parte nella piccola campagna che ci apprestiamo a giocare.
Non sembra avere la stoffa di un eroe, però non si sa mai...
Anche se non è figo come si vuole di solito, il personaggio ha le basi per interfacciarsi con l'ambientazione in maniera attiva, e sicuramente continuerà ad arricchirsi nel corso dell'avventura grazie alle interazioni con gli altri personaggi, giocanti e non giocanti.
Nemmeno su Bilbo avremmo scommesso un soldo bucato nelle prime pagine de "Lo Hobbit", eppure alla resa dei conti è cresciuto abbastanza da fare la differenza persino contro il drago Smaug...


Forse a qualcuno un personaggio basso e brutto con dei deficit fisici può fare storcere il naso: sto giocando in un mondo immaginario e pure qui devo accontentarmi di essere una mezza tacca?
Non necessariamente. Ma quale personaggio vi farà divertire di più?
Il solito "I-miei-genitori-sono-morti-quando-ero-piccolo-sono-cresciuto-in-strada-e-ho-subito-dimostrato-propensione-per-il-combattimento", o il “Sergente Barolo”?
Che possibilità ha l'eroe di giocare insieme agli altri personaggi? Cosa può aggiungere alla storia? Un personaggio taciturno, introverso, poco incline al dialogo, quali possibilità offre in un gioco che nasce e cresce grazie alle parole e agli scambi di idee tra i giocatori e il master?
Questo "eroe" rimarrà probabilmente chiuso nel suo angolino e si sveglierà solo per la meccanica operazione "tiro i dadi - segno i danni" senza interpretare mai la propria identità (inesistente), senza cioè mai giocare di ruolo veramente.
 
Vediamo invece il nostro sfigato da confronto: le sue competenze (cartografo e ufficiale) spingono gli altri giocatori di interagire con lui in una determinata maniera, poi Barolo non è un grande guerriero, e preferirà sicuramente evitare lo scontro andando alla ricerca di una soluzione alla sua portata, esplorando più a fondo il mondo costruito dal master, magari portando alla luce qualche aspetto della trama che caricando a testa bassa sarebbe sfuggito.
La sua debolezza fisica gli farà preferire andare a cavallo piuttosto che a piedi, e, se appiedato, tenderà a rimanere indietro: quando la situazione precipita, gli altri giocatori lo aspetteranno, oppure lo abbandoneranno al suo destino?
 

Una scelta difficile ma emozionante, capace di rendere una sessione interessante con decisioni, rischi e imprevisti.
 
Naturalmente lo stile di gioco del master influirà sempre sulla crescita dei personaggi, e in alcuni mondi il povero sergente menomato non avrebbe vita lunga, ma il concetto rimane: personaggi privi di profondità faranno di qualunque campagna una sterile successione di tiri di dado.
Ci sono giocatori che trovano profonda soddisfazione nelle meccaniche del combattimento, e questa è una cosa assolutamente legittima: a tutti piace menare le mani nei giochi di ruolo, ma sono convinto che fare del combattimento l'unico scopo del gioco lo privi di quello che lo rende davvero interessante e divertente: mettersi nei panni di qualcuno che vivrà emozioni e avventure che noi non potremo mai provare e vivere.
Poi ognuno scelga il personaggio che preferisce, però alla fine non vi lamentate se il vostro personaggio non fa niente/non riesce a inserirsi nella trama e vi annoiate.
Mettetevi nei panni del master: perché dovrebbe impegnarsi per coinvolgere il cartonato di un eroe nella propria storia?



 
E qua entra in gioco T.J. (ovvero io).
Sono molto contento di poter ospitare le suggestioni del mio Giardiniere di fiducia (non sottovalutate mai i giardinieri: vedi Samvise Gamgee...), perché mi trovano d'accordo praticamente su tutto.

E aggiungo altro: quante volte il personaggio schivo, taciturno e solista, ha finito per creare problemi all'intero gruppo? Come master ne ricordo diverse di occasioni simili, che non di rado sono finite in litigi "master VS giocatore solista" o "resto del party VS giocatore solista", rovinando sessione e perfino amicizie.
Ora, anche senza arrivare a questi casi estremi, va davvero sottolineato che dal momento in cui attorno a quel tavolo ci sono più di due persone, la collaborazione diventa fondamentale. In un gruppo, semplicemente, non c'è posto per fare il Ken Shiro di turno.

Not D&D at all
Un mio master, introducendo una campagna una volta ci disse: “I vostri pg sono noti come i 'sei soli'. Siete cresciuti assieme, e il gruppo è gruppo!”.
 
Chiaro che le amicizie possono nascere anche dalla rivalità, ed è quindi affascinante, talvolta, interpretare un pg ombroso, ma se il giocatore si ostina a non collaborare, spesso col solo scopo di far diventare il suo pg più potente e fico degli altri per poi salvarli tutti con un coup de théâtre, allora il pg ombroso con tendenze megalomani va brutalizzato in rapida successione da tutti gli altri pg e dal master.
 
E poi, dai, davvero volete un pg con tutte le caratteristiche al massimo? Io mi stufo dopo i primi cinque minuti.
Se vi piacciono i personaggi di questo tipo vi do un consiglio: lasciate stare D&D e i giochi di ambientazione fantasy.
Ci sono i manga per colmare le vostre frustrazioni personali.


sabato 16 dicembre 2017

Piccole cose oscure - Poesia

Hàvamàl


by Simone Zambruno


Olaf era insofferente, stanco di vivere con la sua famiglia. La sua giornata era un continuo “fai questo” e “fai quello” per aiutare nelle faccende della fattoria. Al compimento del suo diciannovesimo compleanno si sedette a cena e annunciò che se ne sarebbe andato per cercare la sua strada.
«Cosa farai?» chiese la madre, addolorata «non hai denaro, né un asino».
«Ho i miei piedi. Non c'è niente qui, per me» rispose Olaf, ignorando il pianto dei fratelli.
«Ascoltami» gli disse il padre, amareggiato «non troverai fortuna lontano da casa. Il mondo si approfitterà di te». Ma Olaf se ne andò.
Si diceva che sulla montagna si nascondesse un villaggio colmo di ricchezze e di benessere. Così Olaf viaggiò a lungo, vivendo di stenti, sopportando il freddo e i rimorsi. Alla fine, stremato, giunse in cima alla montagna. Si trascinò con le ultime forze fino alla vetta, ma vi trovò soltanto un'incisione sulla roccia nuda:
“L'abete appassisce in un campo aperto: né corteccia, né fogliame lo riparano”.


Racconti Premiati - The Power of Love

Simone Zambruno

The Power of Love

Premio Speciale della Giuria Concorso Letterario La Gazza 2017


Jilliht nacque, e fu subito immensamente felice.
Con animo leggero si lanciò in alto e sorvolò l'erba fresca e profumata del sottobosco, godendo a fondo del suo pungente aroma, poi sfrecciò rapido tra gli alti steli filiformi delle piante palustri, affioranti qua e là sulle sponde dei laghetti che punteggiavano quel meraviglioso mondo arboreo tingendone il paesaggio di verde e ocra.
Destra, sinistra, svolte improvvise, salite vertiginose, picchiate alternate a planate e brevi soste a mezz’aria.
Jilliht era una fata, e quel suo primo volo esprimeva una gioia incontrollabile, libera e sfrenata: la consapevolezza di essere vivo e parte di un mondo ancestrale e puro in cui condividere con i propri simili la semplice felicità dell'esistenza.
Era al momento del crepuscolo, infatti, quando il sole si stava già adagiando placido dietro la lontana linea dell'orizzonte, e il sipario sulla lunga giornata non era ancora del tutto calato, quando la notte non aveva ancora acceso le sue mille luci nel cielo, in quel momento in cui tutto è indaco e le creature del giorno cedono il passo a quelle della sera, che i membri del Piccolo Popolo si lanciavano nella loro magica glorificazione della Vita.
Le fate rinascevano così ogni giorno.
Poco oltre il tramonto le corolle di cento gelsomini bianchi si schiudevano, rivelando al loro interno i minuscoli corpi di elfo e d'insetto gelosamente protetti nelle ore di luce.
Ogni fiore, in un certo senso, sbocciava due volte, perché al suo interno, nella candida alcova dei petali, sedeva accovacciato un pixie dal tenue bagliore rosa, una fata ammantata di luce celeste o un verde spiritello, che finalmente desto e libero spiegava le sue ali membranose e si lanciava nell'aria fresca della sera, grato agli dei per la natura che lo circondava e di cui ora faceva parte.
Le fate non avevano memoria, così ogni volo era sempre il primo volo, e la magia dell'esistenza ricominciava notte dopo notte, espressa da quella splendida, affollata e pur delicata danza di ringraziamento.
La semioscurità del bosco allora veniva rischiarata da mille scie luminose, rallegrata da sottili risa e impercettibili canti, col frusciare di ali trasparenti che affiancava in perfetto contrappunto il frinire lontano dei grilli. Una musica leggera, prodotta da strumenti invisibili e sconosciuti, rendeva la selva un tempio di pace e gioia infinita.
Molteplici, diafani corpi di fata si unirono quindi a Jilliht nella sua danza luminosa, in delicati turbinii di colore e frullio d'ali.
Presto egli incontrò Bindweed, e alla vista di lei il suo minuto cuore si strinse forte nel petto, battendo così tanto da squassarlo.
Lui le volò accanto, incontrando per un istante il suo splendido, disarmante sorriso, poi lei fuggì via, deviando repentina il suo volo verso l'alto, i lunghi capelli neri fluttuanti intorno alla sagoma perfetta e sensuale.
Jilliht la seguì agilmente, e ne nacque una gara che presto si mutò nell'intreccio di corpi e scie luminose, i visi delle due fate a sfiorarsi con urgenza sempre maggiore.
Nell'aria fresca della giovane notte, accarezzati dal vento e trasportati da emozioni pure e primordiali, per molti magici minuti i due danzarono rapiti, ciascuno attratto e guidato dall'altro come falene dalla luce bianca della luna.
Si arrestarono sotto la ghirlanda di una Bella di Notte, rimanendo sospesi sull'erba bassa; quattro paia di ali trasparenti che si agitavano freneticamente per mantenere immobili nell'aria i due piccoli corpi nudi, mai così vicini l'uno all'altro.
Ma a un istante solo da quell'abbraccio che Jilliht desiderava tanto, Bindweed fuggì.
Gli sorrise maliziosa e si dileguò.
Voleva giocare ancora e stuzzicarlo e Jilliht non poté far altro che inseguirla di nuovo.
La corsa ricominciò, i due si confusero in una nube tinta di rosa, verde e azzurro, mentre tutte le altre fate danzavano rapide ed eleganti attorno a loro.
Presto uscirono dallo sciame alla ricerca d’intimità. Bindweed, davanti, si voltava spesso e sorrideva, rallentava e poi fuggiva di nuovo, per poi tornare a voltarsi, e ogni volta il suo sguardo era più ammiccante, il suo sorriso più splendido e disarmante del precedente.
Finalmente Jillith la raggiunse – perché lei lo volle – e per lungo tempo i due volarono affiancati, mano nella mano, occhi negli occhi.
Bindweed lo condusse infine tra l'erba alta, al riparo da tutti gli sguardi, in un punto silenzioso e protetto del sottobosco: gli stette davanti, immobile, lo sguardo provocante perso in quello ammaliato di lui.
Jillith e Bindweed, finalmente soli, si fronteggiarono per lunghi istanti dentro un fitto baldacchino di fili verdi, morbidi e rassicuranti, con limpide perle di rugiada a moltiplicare all'infinito su ogni stelo il gioco dei loro sguardi e dei loro sorrisi. Le due fate erano divise soltanto dal sottile gambo di una margherita, che Bindweed d'improvviso superò annullando lo spazio tra di loro e regalando a Jillith uno sguardo saturo d'invitante malizia.
Gli tese languidamente la mano, sottile e perfetta, poi lo trasse a sé, giusto un istante prima di essere catturata da un lampo rosa, molle e appiccicoso che la trascinò brutalmente tra i cespugli con un sinistro frusciare di foglie e scricchiolare di ossicina spezzate.
Jillith, da par suo, ebbe appena il tempo di sentire la nota stridula di un urlo breve e acuto, poi un abbraccio caldo, soffocante e colloso avvolse anche lui, sempre di più, e tutto si fece nero.

***

“Mario, hai dato da mangiare ai camaleonti?”
“No, ma il vecchio irlandese giù al negozio ha detto che basta piantare nella teca un po' di gelsomini bianchi e metterla in giardino, che poi si arrangiano loro.”
“Scusa ma i camaleonti non sono insettivori? Mica mangiano i fiori!”
“Ma che ne so. Sono grassi però, e non mi sembra che stiano male. Se li guardi la sera vedrai che diventano anche rosa, verdi e celesti. Sembrano magici.”
“Sarà... ma io non li vedo mangiare; di cosa si nutrono, d'amore?”
“L'amore muove il sole e le stelle, Cesira. Può darsi...”
“Mario?”
“Eh?”
“Io vado a letto.”