venerdì 20 ottobre 2017

Recensione [no spoiler]

Stepheng King

 

IT



Sono passati ben 27 anni da quando il demoniaco clown Penniwise ha terrorizzato i bambini di Derry e... del resto del pianeta.
E guarda un po', il caro Penny si risveglia famelico esattamente ogni 27 anni... così eccoci qua di nuovo a parlarne.

Devo ammettere che ho cominciato a scrivere questa recensione diversi giorni prima dell'uscita del film: al primo sguardo il rinnovato look del clown mi ha conquistato, e ho provato davvero ammirazione e stima per i visual artists che gli hanno dato vita.
Sulle prime in realtà mi sono detto: ma dai, con quei dentoni e gli occhi azzurri, non fa paura! Molto meglio il ghigno strabordante di zanne del mitico Tim Curry, il pagliaccio del 1990.



E invece no, era solo l'effetto nostalgico con cui idealizziamo le esperienze passate e discriminiamo il nuovo: questo It ha in sé qualcosa di ipnotico che mi ha davvero conquistato.
Così non vedevo l'ora di condividere il mio placet per il trucco del buon Bill Istvan Günther Skarsgård (che poi con uno che ha la passione per la Scandinavia e i vichinghi, se ti chiami Istvan Günther Skarsgård hai già vinto facile...), agghindato da malefico Pierrot in una goticissima mise desaturata che è a metà tra clown, bambola assassina e maschera del carnevale di Venezia.


Ma al di là dell'aspetto estetico It ha tanto da offrire al pubblico dei nostalgici e dei nuovi fan, molto più di un banale reboot.
In effetti già alla fine del primo tempo - volato - ricco di autocitazioni e scene che ricalcano quelle della miniserie del '90, sono piuttosto soddisfatto. Ci sono alcune invenzioni horror davvero belle, come un pauroso e distopico dipinto alla Modigliani.

 

La scoperta più bella di questa prima parte è senz'altro la recitazione: i ragazzi sono straordinari. Se Finn Wolfhard lo amavo già da Stranger Things (a proposito, venerdì prossimo inizia la seconda stagione!), gli altri sono stati una grande rivelazione; su tutti Ben (Jeremy Ray Taylor) e Sophia Lillis (Beverly), ma nel secondo tempo tutti danno davvero prova di essere già grandi in senso attoriale.
Molto ben caratterizzati anche i cattivi "umani", come il bullo Nicholas Hamilton (Henry).

 

Le due ore abbondanti scorrono via senza problemi, e anzi, alla fine ne vorreste ancora.
Alcune scene sono davvero un sogno (un incubo?) visivo, come quella del bagno di Beverly, quella della proiezione in garage, o, nel finale, la bocca spaventosa e senza fondo del mitico clown.
Un bel voto lo meritano anche le battute dei giovani protagonisti, che spezzano la tensione senza che l'atmosfera ne risenta.

Insomma paura, sarcasmo, effetti speciali spettacolari e revival anni '80: a questo nuovo It non manca nulla.
Tim Curry è e rimarrà l'originale (a livello cinematografico, s'intende), ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare.
Il nuovo clown galleggia molto in alto, e non vediamo l'ora che torni a spaventarci col secondo capitolo.

martedì 17 ottobre 2017

I concorsi letterari fanno schifo


Sì, per lo più lo fanno.
Mi capita spesso di partecipare a concorsi letterari (ma perché, direte voi, se credi che facciano schifo? Perché alcune isole felici esistono ancora), e a volte ottengo pure qualche risultato dignitoso.
Questo accade mediamente un paio di volte all'anno, nel resto dei casi, nisba.
E' normale: tanti partecipanti, concorsi non votati al fantasy, tematiche un po' distanti da quello che mi piace ecc.
In fondo è bello anche perché così ci si confronta con realtà esterne al proprio orticello.
Solo che alle volte fuori dall'orticello c'è il regno di Idiocracy, e ti ritrovi l'esimio giurato, sommo poeta, critico e scrittore Giggino o' Scannapuorc che premia componimenti che neanche in terza elementare avrei scritto tanto male. E non lo avrei fatto perché il mio buon maestro mi avrebbe ucciso prima.


Due esempi.
Quest'estate ho deciso di partecipare a un'interessante iniziativa: il racconto in dieci righe.
Bello! Una sfida avvincente condensare tutte le caratteristiche di un racconto in così poco spazio.
Sono carico, mi iscrivo e partecipo. Arriva la serata finale, a cui sei costretto anche se hai partecipato con l'Osteria numero venti perché i furboni hanno delegato l'annuncio dei vincitori all'evento. Chissene, andiamo.
"Millemila opere partecipanti, grande adesione, grazie a tutti per questo successo!" dice la presentatrice.
Poi comincia la lettura delle opere premiate, tipo un terzo del totale (c'erano tante categorie) e mi accorgo che su una trentina di componimenti segnalati solo due o tre potevano essere definiti "racconti".
Tutti gli altri erano filastrocche, pagine di diario, pensieri, cose, e la metà non erano nemmeno in linea col tema del concorso.
Verso metà della serata ha cominciato ad alzarsi il vento.
Ero io, o meglio, una parte di me, che vorticava furiosamente.


Nessuno pretende di essere considerato chissà chi, ma se c'è una cosa che mi fa incazzare come un'aquila è essere giudicato da incompetenti.
Se un giornalista o un romanziere "vero" mi dice: "guarda, fai schifo, lascia stare" io lascio stare.
Ma se mi rendo conto che chi mi passa davanti lo fa a causa dell'inadeguatezza della giuria (e che sia il Pulitzer o la sagra della cozza di Bustarsizio non fa differenza), allora no.
Perché io mi sono impegnato, ho riposto speranze, e l'ho fatto sapendo di aver rispettato le regole.
Un racconto ha una trama: se il tuo cacchio di "coso" in dieci righe non ha né capo né coda, non è un cavolo di racconto. Punto. E se anche fossi Hemingway, in quel concorso non ti premio.

Secondo esempio.
Mi lancio in un concorso di poesia. Mai fatto, ma è a tema fantasy, e mi ispira.
La poesia in questione è l'haiku.
Haiku significa - nella versione italiana (il giapponese ha, ovviamente, regole sue) - una metrica 5-7-5. Non rigida, interpretabile, ma sostanzialmente è così.
Dal punto di vista narrativo poi, l'Haiku - ed è ciò che lo caratterizza - deve avere in quelle poche sillabe il potere di saper evocare un'immagine, come il classico ramo di ciliegio fiorito.
Ispirato dal soggetto fantasy, produco Haiku come una rotativa dopo lo sbarco sulla luna. Mi iscrivo.
Escono i risultati, nisba. Vabbé, sono molto deluso (ci speravo) ma vabbé.
Poi vado a vedere le opere finaliste. Potrei fermarmi alla prima (non la vincitrice, ma la prima presentata), che contiene:
a) metrica sbagliata del primo e del secondo verso - che significa che sia chi l'ha scritto, sia chi l'ha valutato, non sa contare le sillabe in un Haiku;
b) orrore grammaticale nel secondo verso che la mia prof delle medie (assieme al succitato maestro elementare) mi avrebbe fatto cementare in un plinto e negato di avermi mai conosciuto;
c) nessunissima immagine evocata - il titolo avrebbe potuto essere Gargamella vs Goku e non sarebbe cambiato nulla.

Ma poi siccome sono un rompimaroni le controllate tutte: 5 su 7 hanno la metrica sbagliata. Non solo non dovevano essere in finale, ma neanche ammesse, dato che il regolamento parlava molto chiaro su cosa fosse un Haiku.

E poi c'è il concorso che "la serata finale annunceremo il podio", e quando arrivi trovi il libro del vincitore già stampato (sic!).

E quello in cui la giuria è il pubblico ed è composta per l'80% da casalinghe frustrate e - guarda un po' - il vincitore è il racconto pipì nghé nghé pannolini pappa (non scherzo).

Voi non sapete quanto (tantissimo, ndr) questa cosa mi faccia girare i cosiddetti.
Perché il panorama editoriale italiano delle piccole realtà fa schifo? Per questo!
Perché poi fioriscono le raccolte dei racconti che non sono racconti, delle poesie che violentano la poesia, dei romanzetti pipì nghé nghé e dei pornofantasy.
E io mi sono rotto, ma proprio rotto, della mediocrità promossa a discapito di quelle poche cose buone che non possono essere notate in mezzo a un mare di schifezza.
La democrazia non è applicabile a tutto. Se non sei in grado di giudicare un'opera, non lo devi fare. Se leggi non diventi automaticamente un critico, come se scrivi (e non conosci la tua lingua) non diventi uno scrittore.
Eccheppalle.

lunedì 9 ottobre 2017

Recensione - Blade Runner 2049

Ridley Scott

Blade Runner 2049 [no spoiler]

di The Gardener87

La fantascienza nel corso degli anni ha avuto numerose occasioni di dare il suo contributo al mondo del cinema, e in poche occasioni quel contributo è stato importante come quello del primo Blade RunnerEra dunque inevitabile che prima o poi qualcuno decidesse di farne un sequel, e dopo avere visto Alien: Covenant ero pronto al peggio.

Ma andiamo per gradi e vediamo punto per punto i vari aspetti positivi e negativi di questa pellicola.
Innanzitutto, come suggerisce il 2049 dopo il titolo, il film è ambientato 30 anni dopo le vicende di Rick Deckard, quindi è effettivamente un sequel e non un prequel.
Gli scenari sono molto suggestivi: la distopica metropoli si mostra in tutta la sua alienante magnificenza, resa ancora più sfavillante da effetti speciali di prim'ordine.
I palazzi vertiginosi e le immense insegne tridimensionali interattive conferiscono un aspetto estremamente cyberpunk alla città, arricchita dall'immancabile fan-service in cui vengono ripresentate location e abiti molto simili a quelli visti nella precedente pellicola.


Questi scenari però hanno un piccolo neo: proprio perché tutto è così bello finiscono per risultare leggermente fuori contesto; la città è perfetta, anche le prostitute sono impeccabili nel loro look futuristico, con gli elementi di degrado quasi tutti confinati al di là delle mura cittadine, a differenza della vecchia pellicola, dove la città prendeva vita proprio dall'alternanza delle sterili sale dei grandi palazzi con strade sporche e piovose brulicanti di folla multietnica.

Le sonorità della colonna sonora sono molto simili a quelle scelte da Vangelis nel 1982 e ci fanno dire proprio “musiche da Blade Runner”, anche se forse a tratti sono un po' troppo epiche e “bassose”.

Gli attori protagonisti sono tutti molto bravi e Ryan Gosling riesce molto bene in una parte tutt'altro che facile, dando vita a un personaggio in conflitto con la propria esistenza che scopre poco alla volta il peso dell'umanità. Poi Harrison Ford, che interpreta... Harrison Ford, come sempre alla grande, e anche Edward James Olmos fa una piccola comparsa insieme ai suoi celeberrimi origami.


Gli antagonisti invece risultano ben poco credibili, non per carenze attoriali ma per lo scarso spessore dei personaggi, che scadono in banali cliché da cattivi anni '80; le motivazioni degli androidi in fuga del primo film e del visionario signor Tyrell sono tutte plausibili, con azioni riconducibili alla logica dei personaggi, mentre questi nuovi avversari sembrano più che altro dei sociopatici disturbati proprio per la mancanza di chiarezza dei loro progetti e la scarsa coerenza di alcuni presupposti di base della storia.

Veniamo infatti alla parte più dolente di Blade Runner 2049: la storia.
Ammetto che per la fantascienza sono piuttosto pignolo (molti direbbero che sono un rompi...), però credo che in qualunque racconto di qualunque ambientazione debba rispettare in maniera rigorosa le proprie regole di coerenza interna, perché venendo meno questi presupposti, anche per poco, l'intera storia perde consistenza e tutto si annacqua tra i "se" e i "ma" che uno spettatore attento andrà a  sollevare.


Se nell'introduzione si dice che i vecchi Nexus 8 vengono “ritirati” dai Nexus 8s perché la precedente generazione non ubbidisce agli ordini, mentre la nuova sì, allora i gli 8s DEVONO obbedire senza esitare; la loro stessa esistenza si basa su questo presupposto. Non è una grande anticipazione dire che questo non accade. Inoltre questi nuovi modelli non vengono affatto dipinti come schiavi, non sono i muli da soma che ci aspetterebbe da esseri creati solo per servire, bensì tizi che vivono in piccolo appartamento (simile a quello di Deckard ma più ordinato e illuminato), ricevono benefit sul lavoro, e possiedono beni di conforto assolutamente inutili per un androide senz'altra identità oltre al proprio numero di serie.


Il ritmo della narrazione non è rapido, dilatato da drammatici silenzi, intensi primi piani e qualche scena veramente priva di significato, portando la pellicola alla ragguardevole durata di 163 minuti, che se non siete bravi nelle divisioni sono 2 ore e 43 minuti, un po' troppo per riuscire a mantenere sempre alta la tensione e l'interesse del pubblico in sala.

Alla luce dei fatti Blade Runner 2049, pur essendo un film piacevole, non raggiunge i fasti del predecessore e finisce per perdersi come lacrime nella pioggia.