venerdì 23 dicembre 2016

Recensione - Rogue One

Rogue One

A Star Wars Story



E che storia! Una Story alla Robert McKee, con la S maiuscola, enorme.
Rogue One è perfetto, punto. Il regalo di natale ideale per riconciliarsi con Star Wars e superare la vergognosa delusione dell'episodio VII.
Già dopo la fine del primo tempo il giudizio era clamorosamente positivo: da lì alla fine è soltanto migliorato.

Il film è uno dei prodotti più solidi che abbia visto negli ultimi anni. Mi ha rapito, conquistato, e mentre scrivo, a un quarto d'ora dall'uscita dal cinema, avrei voglia di ricominciare a guardarlo daccapo.
La sceneggiatura è un orologio svizzero (perché è stata rivista e affinata fino a essere realmente priva di difetti), i personaggi sono caratterizzati alla perfezione tanto nell'outfit quanto nell'animo, le scenografie sono scure e claustrofobiche, intime e fumose, proprio come quelle degli anni '70 e '80. I punti di raccordo con la trilogia classica sono infiniti, e senza che mai ci sia un ammiccamento gratuito alla J.J. Abrams.

Rogue One è un film intelligente.
Nessun buonismo, nessuna idiozia comportamentale. I buoni, ampiamente imperfetti nella loro bontà, umani e reali, rischiano, e a volte muoiono. I cattivi non sono più soltanto manichini messi là ad assorbire colpi di blaster. Agiscono, colpiscono, uccidono, e lo fanno attivamente e indiscriminatamente.
Persino il droide di turno, K-2SO vince facile la classifica dei robot apparsi nella saga, con buona pace dei mitici C-3PO e R2-D2. Finalmente una macchina utile, sarcastica, smart, e con un ruolo assolutamente attivo nella trama.

Gareth Edwards ha resistito a moltissime tentazioni, e ha fatto bene.
Non c'è nessun Jedi: avrebbe oscurato gli altri personaggi, e assegnargli un ruolo da comprimario non sarebbe stato credibile. Però c'è Chirrut Imwe, che colma il vuoto ed è, col suo compare Baze Malbus, davvero un bel personaggio. Manco a dirlo, anche lui ha un compito fondamentale nella vicenda. Tutti ce l'hanno, e anche i comprimari ti fanno affezionare e tifare per loro.

Ha resistito a riempire di cammei la pellicola, come dicevamo, perché, semplicemente, Rogue One non ha bisogno di appoggiarsi a nulla. In un paio di casi in realtà ha ceduto alla tentazione, ma nel contesto di un filmone così glielo si concede volentieri. Così come ho trovato tollerabili anche alcune scelte (ma queste tutte di casa nostra) relative ai doppiaggi. Non perfette, ma nemmeno catastrofiche.

Ha resistito - grazie davvero Gareth! - alla storia d'amore, e persino al bacio finale.
Ha resistito - in casa Disney! - al lieto fine a tutti i costi.
Ha osato cancellare l'inviolabile sacralità della sequenza iniziale col testo inclinato che scompare in lontananza. Epporcamiseria, ha avuto ragione! Perché Rogue One non è un capitolo della saga, ma uno spin-off, che deve possedere la dignitosa indipendenza dello stand-alone.

E così facendo ha creato lo spin-off perfetto. Ha approfondito la conoscenza dell'universo di Star Wars, ha colmato lacune della storia lasciate aperte dai precedenti film, e ha raccordato le prime due trilogie.
Rogue One è come mezzo mondo si sarebbe atteso l'episodio VII, e se io fossi il Margravio di Disneylandia, ora prenderei tutti i contratti già in essere e ci farei coriandoli.
Poi scritturerei il buon Gareth Edwards e il suo pool di sceneggiatori per realizzare tutti i prossimi film della serie.

Eh sì, perché dopo Rogue One, un altro pastrocchio d'insensatezze scopiazzate non lo potrei proprio sopportare (capito J.J.?), e temo che sarà difficile mantenere l'asticella a questa altezza nei prossimi capitoli.
Un grande saggio una volta disse che c'è fare o non fare, non c'è provare.
A me invece basterebbe che a differenza di quanto ha fatto Abrams, i successori di Edwards almeno ci provino.




sabato 10 dicembre 2016

Recensione - Pacific Rim

Pacific Rim



Ora: si dice che i maschi siano organismi semplici, gretti, dominati da istinti basilari e prevedibili.
Si dice che la loro esistenza sia guidata dai bisogni primari dell'animale: mangiare, dormire, zaccagnare (cit.). Eh sì, soprattutto zaccagnare.
Assolutamente vero.

Ah, Frank. Tu sì che zaccagnavi alla grande...


Infatti, fatto salvo il comune desiderio - neanche tanto inespresso - di circondarsi di odalische libidinose ma nude, sono davvero poche le cose in grado di elevare il livello di attenzione di un maschio oltre la soglia della mera sopravvivenza (diciamocelo, passiamo buona parte della vita in modalità antigelo).

I robottoni lo fanno!
Compiono il miracolo! Coi robottoni il maschio mi si attiva, delega le funzioni vitali del respiro e del battito del cuore alla parte più remota del suo essere, e dedica tutta la sua energia allo schermo.
Scrive il grande Robert McKee, padre degli sceneggiatori hollywoodiani, che durante la proiezione di un film il quoziente intellettivo degli spettatori sale di 25 punti.
I maschi posti di fronte a enormi pupazzoni di metallo virtuale che brutalizzano mostri fluorescenti, come nel peggiore Celebrity Death Match, sfiorano in questo modo vette raggiunte di rado persino da Forrest Gump Tesla.

Volete rendere il mondo un posto migliore? Più robottoni per tutti!
Era dai tempi di Megaloman che si pazientava struggendoci in attesa di qualcosa del genere, e grazie al buon Guillermo del Toro, ora possiamo morire felici e liberare il mondo dalla nostra beata inutilità.

Ah, Megaloman. Tu sì che zaccagnavi alla grande...


Pacific Rim è un fumettone golosone per appetiti semplici semplici, pieno di colori, cliché carrettate di effetti speciali e nient'altro personaggi stereotipati simpatici e ben assemblati, come l'improbabile Hannibal Chau dalle scarpe d'oro (l'inossidabile Ron Perlman) - che sagoma! - o la coppia spassosissima dei due scienziati nemici/amici che sparando cazz con la loro conoscenza imbarazzante della genetica e dei teletubbies modelli matematici risultano fondamentali per la scontata banale prevedibile scialba vittoria finale.

Insomma, tirando le fila, due ore di tabula rasa cerebrale proprio di quelle che piacciono a me (tanto è vero che mi sono pure comprato il blurei. Eh? Eh?).
Poi dite che non vi consiglio bene.

venerdì 9 dicembre 2016

Recensione - Le Spoglie del Drago parte quarta

Margaret Weis & Tracy Hickman

Le Spoglie del Drago - Quarta Parte

Ciclo delle Dragonships - Libro 1


E insomma, siamo giunti alla fine.
Cioè, prima di giungere alla fine ci sono volute altre cento paginette per coronare il sogno di arrivare all'agognata p.532, però ce l'abbiamo fatta.
Detta così potrebbe far pensare che mi sia annoiato, e invece...
Sì, mi sono annoiato.
Un po', perlomeno. Intendiamoci, consiglierei Le Spoglie del Drago comunque, leggerò volentieri il seguito del ciclo delle Dragonships - composto da Il Segreto del Drago e L'Ira del Drago - e sono contento di aver acquistato questi tre libri in bundle.

Solo che l'enfasi berserker iniziale si è via via mutata in una quieta lettura da salotto vittoriano per diversi motivi; innanzitutto, come sottolineato nella prima parte della recensione, non puoi mettermi sotto al naso Vichingoni VS Super-orchi e poi costringermi ad aspettare il secondo (mi auguro) romanzo prima di vedere risolto il conflitto.
Secondo, la freschezza delle prime due parti si annacqua strada facendo a causa di interi capitoli che a mio dire potevano essere risolti molto più agilmente, vedi la terza parte del libro - La Nave Fantasma.
Infine, mi ha dato piuttosto fastidio, ma questo è un dato assolutamente soggettivo, l'introduzione degli pseudo romani a inquinare la purezza dell'ambientazione nordica, perché la commistione di popoli che si rifanno palesemente a quelli realmente esistiti nella storia mi fa un po troppo Mystara (e chi - tra i vecchi all'ascolto - vuole capire, capisca).
Questi i contro.

Per contro (ah ah, capito? Per contro ai contro... Le risa! Ora però basta ridere) va sottolineato come il romanzo sia strutturalmente solido, i personaggi - primo tra tutti Skylan, il babbeo protagonista - siano ben costruiti, vivi e credibili fino a farti venir voglia di andar lì a Vichingonia a prenderlo a calci personalmente per quanto è stolido, quello lì. L'intreccio è coinvolgente e così i climax, e poi ci sono delle belle idee un po' ovunque.

Insomma, non si può dir male della cara vecchia Weis & Hickman Inc. che sforna storie fantasy da prima che molti di noi abbrancassero il loro primo d20, né della loro arte scrittoria, né della loro sorprendente capacità di creare continuamente mondi nuovi e affascinanti. Diciamo che la pecca principale di questo primo volume del ciclo delle Dragonships sta un po' nella lunghezza complessiva e nel ritmo non sempre forsennato.
Però T.J. è rimasto soddisfatto, e questo, cari miei, non è mica roba da poco.
Oh.